“L’obiettivo, in altre parole, non è più apparentemente il miglioramento del patrimonio genetico della popolazione, ma piuttosto l’offerta di “servizi di genetica” per i cittadini, i quali possono usufruirne per motivi propri. Dunque, la modalità principale della prassi eugenetica della società liberale – affidata, per così dire, al mercato e monitorata dallo Stato – è principalmente quella di una diffusione sistematica della diagnosi prenatale e dell’applicazione delle tecniche di ingegneria genetica”.

Cromosomi

 

 

di Giorgia Brambilla

 

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’eugenetica divenne una parola da bandire sia in Gran Bretagna, sia negli Stati Uniti, dove il termine si tramutò in sinonimo di razzismo. E oggi quando parliamo di eugenetica pensiamo a una specie di “fossile”, un concetto che ormai appartiene al passato. Ne siamo così sicuri?

Facciamo un passo indietro.

Il termine “Eugenics” risale a Francis Galton (1822-1911) – cugino nientemeno di Darwin – che sosteneva l’idea di regolare la fertilità e di selezionare le nascite, coerentemente con la nuova “fede” nella scienza, capace di “perfezionare” l’umanità e di liberarla dal dominio del caso. Tale obiettivo si sarebbe potuto raggiungere selezionando i soggetti adatti alla riproduzione per le loro qualità (eugenetica positiva) o facendo in modo che i portatori di caratteri disgenici non giungessero alla riproduzione (eugenetica negativa). Agli albori del nuovo secolo l’eugenetica si diffuse in molti Paesi come “nuovo credo” e nuova “dottrina sociale”, assumendo forme a seconda dei contesti sociali e culturali entro i quali venne pensata, intersezione di svariate discipline, dalla genetica alla medicina e alla sociologia, sempre e comunque caratterizzata da una spiccata volontà d’azione e da una forte connotazione politica.

Si pensi, infatti, all’applicazione che il nazionalsocialismo tedesco fece delle idee di Galton e dei suoi seguaci: preservare la “purezza ariana” evitando le “contaminazioni” con razze giudicate inferiori, mediante programmi di “rigenerazione” della razza tramite la sistematica eliminazione delle vite non degne di essere vissute e fino alla “soluzione finale” verso gli Ebrei.  Così come anche, prima e dopo il nazismo, numerose Società, da quelle anglosassoni a quelle svedesi, coadiuvarono leggi che imponevano la sterilizzazione dei “difettosi” – generalmente individui con ritardo mentale – con programmi di igiene pubblica allo scopo di “immunizzare” la società dai mali che essi avrebbero propagato trasmettendoli alla loro progenie. Così in Svezia, dove la sterilizzazione rimase in vigore fino al 1976 e così in Svizzera, dove la legge approvata nel 1928 fu abrogata soltanto nel 1970.

Nel trattato “Human Heredity” James Neel e William Schull denigrarono l’eugenetica del passato, mettendo in guardia dagli estremi ai quali tale ideologia avrebbe potuto condurre, ribadendo ai colleghi eugenisti che al primo posto per la società vi era l’avanzare delle scoperte genetiche. Le società eugenetiche, sia inglesi che americane, capirono, infatti, che non era possibile continuare con una propaganda aggressiva. I loro obiettivi andavano perpetuati discretamente, attraendo nuovi membri o coinvolgendo nelle loro attività personaggi di spicco del panorama scientifico o di quello politico. Si noti che la società eugenetica britannica continuò ad esistere come circolo più ristretto e che nel 1972 la sua controparte americana divenne la “Society for The Study of Social Biology”, un vestigio dell’originaria organizzazione. Quindi, anche se l’ideale eugenetico era “passato di moda”, un vasto numero di scienziati continuò, chi in un modo, chi in un altro, a portare avanti il programma di riforma eugenetica. Scrive Fredrick Osborne, protagonista del movimento eugenetico americano del Dopoguerra, in un articolo di “Eugenics Review” del 1956: «La parola “eugenetica” è caduta in disgrazia in alcuni ambienti (..): le persone si rifiutano di accettare che la base genetica che compone le loro caratteristiche è inferiore (..), ma accetteranno l’idea di uno specifico difetto ereditario. Andranno a una clinica per l’ereditarietà e chiederanno qual è il rischio di avere un bambino con qualche difetto. Se si porranno condizioni plausibili, la gente avrà figli in rapporto alla propria capacità di prendersi cura di loro. E Se avranno metodi efficaci di pianificazione famigliare, certamente non ne avranno molti (..). Così possiamo costruire un sistema di “selezione volontaria inconsapevole”».

L’obiettivo, in altre parole, non è più apparentemente il miglioramento del patrimonio genetico della popolazione, ma piuttosto l’offerta di “servizi di genetica” per i cittadini, i quali possono usufruirne per motivi propri. Dunque, la modalità principale della prassi eugenetica della società liberaleaffidata, per così dire, al mercato e monitorata dallo Stato – è principalmente quella di una diffusione sistematica della diagnosi prenatale e dell’applicazione delle tecniche di ingegneria genetica. La selezione su base genetica degli individui è resa possibile grazie alla possibilità di analizzare il genoma di embrioni e feti a cui segue la scelta dell’aborto in caso di malformazioni: è questa la “genetica liberale” di cui parla Jürgen Habermas nel celebre testo “Il futuro della natura umana”.

E la “genomania” risponde a un atteggiamento culturale che trasforma, nell’immaginario comune, la volontà di un figlio perfetto in un’idea ragionevole e quindi condivisibile.

L’orizzonte dell’eugenetica liberale è costituito, infatti, dall’impiego di tecniche che vengono proposte alla coppia dalla medicina moderna, come l’amniocentesi – o la nuova metodica di analisi delle cellule fetali presenti nel sangue materno, chiamata “DEParray”, che si sta studiando a Singapore – al fine di sapere se il proprio figlio ha una malattia cromosomica e così eventualmente eliminarlo con l’aborto “terapeutico”. Questo provoca un cambiamento del significato stesso della pratica medica, in quanto la diagnosi non è per la cura ma per l’eliminazione.

Anche l’ingegneria genetica propone una vera e propria sfida al nostro essere: ciò che per Kant era il “regno della necessità” e per Darwin il “il regno della causalità” è diventato “regno della libertà”, per opera della nuova disciplina. E su chi si esercita questa pseudo-libertà? La risposta è semplice: è il potere dei viventi sulla generazione futura, dei genitori sui figli che ancora non sono nati. Un potere che è strumentalizzazione della vita umana che, generata con riserva, deve il suo essere dall’“essere così”.

Ricordo che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno parlato dell’eugenetica come mentalità presente nelle questioni bioetiche.

Giovanni Paolo II, nell’Evangelium Vitae al n.63, scrive: «Accade non poche volte che queste tecniche siano messe al servizio di una mentalità eugenetica, che accetta l’aborto selettivo, per impedire la nascita di bambini affetti da vari tipi di anomalie. Una simile mentalità (..) pretende di misurare il valore di una vita umana soltanto secondo parametri di “normalità” e di benessere fisico».

Benedetto XVI, invece, ne parla nel 2009 come quella «mentalità che tende a giustificare una diversa considerazione della vita e della dignità personale fondata sul proprio desiderio e sul diritto individuale [che privilegia] le capacità operative, l’efficienza, la perfezione e la bellezza fisica a detrimento di altre dimensioni dell’esistenza non ritenute degne» (Discorso alla PAV, 21/02/2009).

In virtù dell’esaltazione dell’uomo come sovrano della propria natura, si professa l’ansia di raggiungimento di un uomo perfetto, ma si pone l’esistenza del proprio simile sotto condizione. Del resto, «l’ascesa dell’uomo, il tentativo di creare, di generare Dio da sé, di raggiungere il superuomo, quest’impresa è già fallita nel paradiso terrestre. L’uomo che vuol diventare egli stesso Dio, e che con sentimenti autoritari cerca di prendere le stelle, approda sempre, alla fine, all’autodistruzione» (Benedetto XVI, Collaboratori della verità).

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