Cerimonia in onore di padre Jacques Hamel – 26 luglio 2021 – Saint-Etienne-du-Rouvray. Discorso del vescovo di Rouen Dominique Lebrun, tradotto da don Pierre Laurent Cabantous.
Signor Ministro, signor Prefetto della Regione,
Signore e signori membri del Parlamento,
Caro Hubert Wulfranc,
Rappresentanti dei Presidenti della Regione, del Dipartimento e della Metropoli,
Rappresentanti eletti delle autorità locali,
Signora Pubblico Ministero,
Signor direttore della pubblica sicurezza,
Signor comandante della gendarmeria della regione Normandia, Generale, Signor presidente del tribunale amministrativo, Signor Bâtonnier,
Signor Sindaco,
Caro Joachim Moyse,
Caro Guy, cara suor Danièle,
Cara famiglia di padre Hamel,
Cari amici di altre fedi, specialmente ebrei e musulmani, Cari fratelli e sorelle della parrocchia,
Cari tutti,
Grazie per la vostra presenza; ognuno è importante, per quello che rappresenta, per quello che è. Dal profondo del mio cuore, grazie.
Il quinto anniversario dell’assassinio di padre Jacques Hamel ha due particolarità cronologiche. Da un lato, segue di qualche settimana la morte di Janine Coponet, una testimone, una doppia testimone, se posso dire così. È stata testimone della morte di padre Jacques Hamel e testimone del massacro di suo marito, il caro Guy, mentre assistevano insieme alla messa. D’altra parte, questo quinto anniversario precede di qualche mese il processo di quattro persone accusate di essere complici di questo atto che noi chiamiamo, nella fede cristiana, martirio, e che tutti riconoscono come barbaro.
Rischiando di sorprendere e persino di essere frainteso, permettetemi di concentrarmi sul secondo evento prima che sul primo. Dalle prime ore del 26 luglio 2016, ho pregato per i due assassini che sono morti proprio accanto a dove ci troviamo. Lo faccio con la comunità cristiana, non senza difficoltà nel mio cuore, che, a volte, ha ancora sentimenti di vendetta, di rabbia. Lo facciamo perché il nostro orizzonte è quello di Gesù, quello della misericordia e del perdono: crediamo che Gesù, Dio fatto uomo, è venuto a salvare tutta l’umanità, a perdonarla.
Sempre di più, crediamo che questa umanità sia una sola. Che senso avrebbe un Dio che salvasse solo alcune delle sue creature senza le altre? Il suo amore sarebbe impotente a salvare coloro di cui vuole l’esistenza, un’esistenza a cui dà la libertà ma a cui non dà la morte, e non può rassegnarsi alla morte.
La pandemia è un altro segno che la salute – un’altra definizione di salvezza – non è divisibile, non importa qualsiasi cosa faccia l’umanità con la sua unità, con le sue frontiere o il suo carico di ingiustizie divisive.
Quindi, la mia preghiera è per i quattro imputati che compariranno di fronte al tribunale degli uomini tra sei mesi, tre dei quali sono in detenzione da quasi cinque anni. La giustizia umana deve essere fatta per loro, secondo le leggi del nostro paese e i grandi principi che sostengono la vita umana. Quella giustizia dirà se sono innocenti, se sono colpevoli e, in caso affermativo, quale pena dovranno vivere.
La giustizia degli uomini finisce qui. La mia preghiera cerca di raggiungere la giustizia di Dio, colui che, senza possibilità di errore, sa cosa è bene e cosa è male. Ma la giustizia di Dio non si ferma a dichiarare ciò che è bene e ciò che è male, lavora per rendere giusto l’ingiusto. Questo è vero per me, ed è ciò che mi aiuta a riconoscere i miei sbagli. È vero per la nostra Chiesa, ed è ciò che ci aiuta a riconoscere i nostri difetti, che a volte sono grandi difetti. Questa è la mia speranza, questa è la speranza dei cristiani: per grazia di Dio, tutti possono diventare migliori, compresi i complici degli assassini.
La nostra società ha fatto di questa speranza il fondamento della sua giustizia. Non è questo che sta alla base dell’abolizione della pena di morte o dell’ergastolo? Non è forse questo che sta alla base dello scopo più importante di una sentenza: il ritorno a una vita dignitosa per il reo, che è diventato indegno? Non dobbiamo mai pensare che la vita di un delinquente sia una prigione. È destinato a uscire. Noi tutti dobbiamo partecipare a questo obiettivo fornendo le condizioni per questo ritorno. Come cristiani, crediamo che l’amore universale di Gesù, la sua misericordia e la grazia di Dio fanno parte di questo bel cammino, se non le condizioni. Il nostro paese non dovrebbe allontanarsi dal suo fondamento: ogni vita umana è degna di essere vissuta e ha un bel percorso da vivere fino alla fine. È la nostra responsabilità comune: ancora una volta, c’è una sola umanità.
Janine Coponet è arrivata alla fine del suo viaggio sulla terra qualche settimana fa. Faceva parte della speranza dei cristiani. Le sue ultime parole sono esemplari come quelle di padre Jacques Hamel, forse anche, per alcuni, incomprensibili: “Muoio felice”, disse. Ringraziava Dio per la sua vita, nonostante le prove, o a causa di esse, compresa questa terribile prova che commemoriamo oggi.
Come non sottolineare la felice e provvidenziale scelta di Papa Francesco di dispensarci dalla scadenza di cinque anni prima di aprire il processo di beatificazione che potrebbe, un giorno, riconoscere ufficialmente il martirio di padre Jacques Hamel? Il Papa ha, in questo modo, permesso di prendere le dichiarazioni di tutti i testimoni oculari. Come sapete, l’indagine diocesana è stata completata, presentata a Roma e abbiamo ricevuto il riconoscimento della validità di questa indagine. Il resto non dipende da noi, intendo il resto di questo processo.
La continuazione del martirio ora ci appartiene. La parola “martire” significa “testimone”, in un senso che va ben oltre la testimonianza indispensabile che Janine e voi altre, suor Danièle, suor Hélène e suor Huguette, Guy, avete dato alla giustizia francese, o al processo di beatificazione, testimoniando ciò che avete visto. Essere testimoni, come sapete, significa andare fino in fondo all’amore ricevuto, essere fedeli. Grazie a Janine per essere andata fino alla fine a modo suo, in fedeltà all’amore ricevuto e riconosciuto.
Grazie a tutti voi, cari amici, per essere fedeli a ciò che avete ricevuto attraverso questo terribile evento che, grazie a ognuno di noi, può diventare sempre più un cammino di speranza e di fedeltà a un’umanità indivisibile.
Per i cristiani, questo è il senso profondo dell’essere testimoni a cui ci invita padre Jacques Hamel e, paradossalmente, signore e signori del Parlamento, anche le leggi del nostro paese, che, bisogna dirlo, si allontanano dai dieci comandamenti.
Ministro, non è più la legge che ci obbliga a rispettare la vita dal suo inizio alla sua fine naturale; non è la legge che ci comanda di aiutare il prossimo che viene a cercare rifugio sul nostro suolo o che arriva sognando un El Dorado; non è più la legge che ci ingiunge di rispettare i comandamenti di Dio nella vita familiare; non è la legge che ci ispira a lavorare per vivere insieme e ad assumere il perdono come nostro orizzonte. Quindi, se non è più la legge, c’è un imperativo molto più grande: è l’amore, è l’amore ricevuto, è l’amore dato. È l’amore che ha fatto vivere padre Jacques Hamel, qui a Saint-Etienne-du-Rouvray, e che lo fa vivere oggi nei nostri cuori e con Dio.
Mi permetta di concludere ringraziandola, signor Ministro, per la sua rinnovata presenza, che segna la sua attenzione alle comunità religiose. Permettetemi anche di ringraziare calorosamente la città di Saint-Etienne-du-Rouvray per la sua attenzione alla comunità cattolica ferita e alla vita delle comunità credenti. Se le nostre comunità possono, anzi devono, essere in conflitto con la vita della società così come viene vissuta, specialmente nelle sue violenze e ingiustizie, non hanno alcuna intenzione di separarsene, al contrario. Come lo era padre Jacques Hamel, vogliamo essere fermento di amicizia in una vita comune, semplicemente e fedelmente.
+ Dominique Lebrun
Arcivescovo di Rouen
Il testo originale del discorso lo potete trovare qui
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