Dopo la strage nel giorno di Pentecoste in una chiesa della Nigeria, una riflessione del prof. Leonardo Lugaresi rilanciata dal suo blog.  

 

 

La strage di cristiani avvenuta ieri, durante la Messa di Pentecoste, nella chiesa di San Francesco a Owo, in Nigeria, è il fatto più importante di questi tempi. Solo la nostra ottusità, che in parte è nostra e in parte è indotta dal Nemico (l’Astuto Demente), può farcelo confondere con le mille altre brutture che il campionario della storia ci offre ogni giorno. Eppure il sangue di quelle decine di “agnelli di Dio” trucidati intorno all’ altare dell’Unica Vittima parla chiaro. Anzi grida.

Dopo la resurrezione di Gesù Cristo, quando finalmente i discepoli si convinsero che era avvenuta davvero, posero al Risorto una domanda: «Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?» (Atti 1,6). È l’aspettativa più umanamente ragionevole che possa esserci: se Lui è risorto, che cosa ci sta più a fare la storia, con tutte le sue “brutte possibilità”? Che cosa resta da fare? Non è già accaduto tutto? Al massimo un millennio di pace e prosperità, una specie di dessert dopo tutta la merda che abbiamo dovuto mangiare, poi tutti in cielo a fare festa. Comunque da subito l’avvento glorioso del Messia, come hanno pervicacemente pensato e spasmodicamente atteso i cristiani della prima generazione …

A questa ragionevolissima domanda, Gesù reagisce con spietata durezza: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti (χρόνους ἢ καιροὺς) che il Padre ha riservato al suo potere» (Atti 1,7). In pratica: “non sono affari vostri” (o peggio, se volesse adattarsi alla volgarità del nostro odierno linguaggio). Con questo il Signore toglie ogni spazio di legittimità alle nostre speculazioni sul “corso della storia” e alla nostra pretesa di “normalizzare” la stranezza dell’agire di Dio («i miei pensieri non sono i vostri pensieri» aveva già detto Dio a Isaia). Non ci lascia però soli nel nostro smarrimento: fa una promessa e dà un ordine. «riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e sarete testimoni (μάρτυρες) di me a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (Atti 1,8).

Quest’ultimo versetto è, in un certo senso, il più importante del Nuovo Testamento, perché riporta l’ultima parola del Risorto, quella che riassume e compie tutto ciò che la precede, ed è anche la prima parola della chiesa, il suo mandato, la sua unica ragion d’essere, il senso esaustivo della sua storia: essere testimoni di Cristo, cioè martiri. Il più grande errore concettuale che noi facciamo credo che sia quello di separare, spesso inconsapevolmente, la testimonianza dal martirio, isolando quest’ultimo in una dimensione “estrema” che sembra non riguardarci direttamente e riducendo fatalmente la prima a “buon esempio”, cioè presentazione pratica di una vita buona, un “vivere bene“ che diventa attrattivo per gli altri: “guarda che brave persone!; guarda come si vogliono bene! Vogliamo essere come loro, unirci a loro!”. Anche nella sua declinazione migliore, quella per cui è testimonianza di una diversità (“c’è in voi qualcosa di diverso da tutti gli altri, qualcosa che umanamente non mi spiego e che mi affascina”), questo “cristianesimo attrattivo” (che sembra essere il solo che oggi venga promosso e valorizzato nella chiesa) se non riconosce ed incorpora la sua essenziale dimensione martiriale, inevitabilmente si mondanizza.

Dire martirio significa infatti riconoscere alla testimonianza la sua fondamentale e imprescindibile valenza di prova, nel senso giudiziario, processuale del termine: si è testimoni di Cristo (o contro Cristo) nel senso che si fornisce la prova, con la propria vita, della sua verità. Oppure, al contrario, la si smentisce. La Storia, dall’inizio alla fine, è un grande Processo, o meglio una concrezione di processi l’uno dentro l’altro. C’è quello vero, che si svolge nel tribunale del Giusto Giudice, quello in cui tutti siamo giudicati – nell’ultimo giorno secondo la nostra prospettiva temporale, precisamente ora in quella dell’Eterno – e poi ci sono gli innumerevoli processi che nelle più diverse e spesso improbabili aule giudiziarie del mondo gli uomini si intentano tra loro. Tra questi c’è il processo a Gesù, quel paradossale giudizio in cui è l’imputato a dire la verità ed è il giudice a mentire. Ecco, quel processo non si è mai chiuso e noi siamo chiamati a rendervi testimonianza. Testimonianza proprio in quel senso lì, una cosa da art. 497 del codice di procedura penale: “consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”.

Ogni testimonianza cristiana è martirio, oppure non è. Andare in chiesa nella mia parrocchia, il giorno di Pentecoste e poi tornare incolume a casa mia, non è diverso – non può, non deve essere diverso – da andarci nella chiesa di Owo, in Nigeria, ed esservi sgozzato insieme a Cristo. Ogni messa, infatti, è l’attuarsi dell’unico sacrificio salvifico della croce. Oppure non è niente. Che il sangue non si veda, non vuol dire che non vi scorra. (Qualche volta Dio permette che si veda anche: o perché fa un miracolo eucaristico o perché lascia che si compiano sacrifici eucaristici come quello di padre Hamel o quello di ieri …).

Ma è così per me, per noi che, dopo aver partecipato a una celebrazione in cui purtroppo quasi nulla ci aiuta alla consapevolezza di questo mistero e molto da essa ci distrae, torniamo a casa a fare la nostra solita vita, “buona” ma non troppo diversa da quella degli altri?

Ecco perché dico che è vitale oggi per la chiesa guardare questi segni e seguirli. Una delle più pesanti differenze tra la coscienza ecclesiale dei primi cristiani e la nostra mi pare che sia l’importanza enormemente minore che noi diamo al martirio, benché di martiri ve ne siano probabilmente molti di più oggi rispetto ad allora. Loro si concepivano come una chiesa di martiri, noi no.

 


 

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