“Alla luce dello sconcertante licenziamento dei docenti dell’Istituto Giovanni Paolo II, oltre alla perdita del loro spessore intellettuale, riferimento indiscusso per chi si occupa di matrimonio, famiglia e vita, c’è da chiedersi su cosa si fonderà la riflessione su questi temi se si mette fuori gioco la Teologia morale. (…)
Il vero dato irragionevole è questo piuttosto: proporre questioni complicate e delicatissime, come tutte quelle che toccano la persona umana, svuotandole di quella verità sull’essere umano da cui dipendono e della disciplina – la Teologia morale – che più di tutte ha l’onorevole mandato di discernere cosa rispetta tale verità chiamando il bene e il male con il loro nome. Una strada senza partenza e senza arrivo, ma con un salato pedaggio da pagare.”
di Giorgia Brambilla
Alla luce dello sconcertante licenziamento dei docenti dell’Istituto Giovanni Paolo II, oltre alla perdita del loro spessore intellettuale, riferimento indiscusso per chi si occupa di matrimonio, famiglia e vita, c’è da chiedersi su cosa si fonderà la riflessione su questi temi se si mette fuori gioco la Teologia morale.
Ci sono due ordini di problemi: il primo è di tipo concettuale, il secondo di tipo metodologico. Mentre, il primo vede la frammentazione tra morale, fede, ragione e verità – causa del riduzionismo relativista e del nichilismo di cui è permeato il razionalismo moderno; il secondo consiste nell’annullamento del senso principale di questo tipo di riflessione, cioè dire cosa è giusto e cosa non lo è, sradicando l’albero del bene e del male e gettando così nella confusione più totale le coscienze.
Vediamolo brevemente.
L’esclusione della Teologia dal dibattito pubblico, dalla formazione e dal fondamentale discorso sull’uomo – che va dal matrimonio alla Dottrina sociale passando per la Bioetica – comporta un notevole prezzo da pagare. Sono ancora attuali le parole della Dei Filius: «si è diffusa troppo ampiamente per il mondo quella dottrina del razionalismo o naturalismo che, combattendo con ogni mezzo la religione cristiana in quanto realtà soprannaturale, cerca con ogni sforzo di stabilire il regno di quella che chiamiamo ragione pura o natura (..) Rifiutata ed abbandonata la religione cristiana, negato il vero Dio e il suo Cristo, la mente di molti è precipitata nel baratro del panteismo, del materialismo e dell’ateismo di modo che negando la stessa natura razionale ed ogni norma del giusto e del retto, si sforzano di distruggere i fondamenti della società umana» (nn. 804-805).
Creare piattaforme esclusivamente razionali, basate su di una fiducia socratica secondo cui all’uomo sarebbe sufficiente l’evidenza del bene descritto dalla ragione perché egli vi aderisca direttamente e senza ostacoli e in cui il dato di fede è ritenuto un fattore da escludere per riuscire a raggiungere i “lontani” si rivela un vicolo cieco: oggi è ancora più lampante il fatto che un’etica costruita alla luce della sola ragione sarà in grado soltanto di stabilire dei limiti approssimativi all’oggettivazione dell’altro che però alla fine risulterà inevitabile. L’uomo, infatti, è sempre tentato da una forma di utilitarismo. Del resto, se egli da solo deve garantirsi la sua esistenza, il suo futuro non potrà mai essere completamente disinteressato: l’altro gli apparirà sempre in qualche modo come un mezzo per la sua felicità, un mezzo per sé, per garantirsi la sua esistenza. Arriverà il momento in cui la salita sarà troppo faticosa, il bene troppo arduo, i tempi troppo difficili, i valori troppo liquidi.
Non si può costruire la morale a partire dall’etica, cioè a partire dalla ricerca di soluzioni particolari, senza confrontarsi sulla scelta fondamentale che tutte le sostiene e le motiva. Il problema è che l’epoca moderna ha messo profondamente in dubbio l’idea che dalla fede possa scaturire una qualche conoscenza, contestando, di conseguenza, alla Teologia l’attributo di scienza. Questo pensiero racchiude tutto il riduttivismo moderno della ragione, in base al quale quello che noi conosciamo può essere tale se ha un’universalità, per cui se uno scienziato fa un esperimento e trova la legge del fenomeno fisico, quella legge è vera e ha valore conoscitivo perché chiunque la può riprodurre e può verificare se corrisponde alla realtà o meno. Questo particolare riduzionismo, che prende il nome di “scientismo”, «rifiuta di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e teologica, sia il sapere etico ed estetico» (Fides et Ratio n.88). Dunque, tutto ciò che riguarda la domanda di senso, ma anche qualunque riflessione sui valori o sull’essere appartiene all’irrazionale e, come tale, ha solo valore soggettivo e mai oggettivo e quindi conoscitivo. Questo pregiudizio, di ascendenza hedeiggeriana, secondo cui chi crede non pensa, ha compromesso lo stesso pensiero filosofico, ridotto a “metascienza”, incapace di offrire risposte definitive alle domande più radicali, perché privato della missione di ricercare la verità.
Se si vuole fare formazione e dare criteri di comprensione rigorosamente razionali, come nel caso ad esempio delle questioni che riguardano la Bioetica, dall’ambito della procreazione e della famiglia fino a quello del bene comune o del multiculturalismo, non si può chiudere la porta alla Teologia, e nella fattispecie quella morale, la quale intende argomentare razionalmente a partire dalla Rivelazione avanzando la pretesa irrinunciabile di dire la verità sull’uomo e una verità da proporre pubblicamente.
Com’è possibile questo? Per una generazione, ovattata dalla posizione illuminista, l’ottica secondo cui per esercitare validamente il suo compito in ambito morale la ragione deve lasciarsi illuminare dalla fede – che “conosce qualcosa in più” – è un dato evidentemente da riscoprire.
In ambito morale, la ragione ha un ruolo molteplice, in relazione ai molteplici campi di indagine e di giudizio che la riguardano. La fede con la sua offerta di senso intende interagire con la ragione in questo ambito e provocarla come domanda sul senso ultimo della vita umana e sul valore della sua esistenza: l’ulteriorità della fede non costituisce l’abiura della ragione quanto piuttosto il suo compimento. Quando l’occhio osserva gli oggetti attraverso il microscopio non perde la sua importanza né la sua funzione. In altre parole, è così che si dà alla ragione il suo sviluppo più pieno e la fede è un dono che perfecit non destruit naturam. La luce della fede ha, infatti, un duplice compito: in positivo di perficere e reddere ad maiora e, in negativo, di non extinguere et imminuescere il valore della ragione.
La morale – e tutte le riflessioni che nascono da essa – nasce dalla conoscenza del valore della persona, alla luce della visione che Dio ha dell’uomo. Da questo punto di vista, infatti, la morale cristiana è l’opposto del legalismo: per il legalismo le norme morali sono solo espressioni isolate della volontà di un legislatore che le ha promulgate; invece, per il cristiano si tratta di verità sul bene della persona, che hanno la loro radice nell’essere e il loro fondamento nella sapienza creatrice di Dio e nella sua grazia redentrice. Dunque, è solo su questa prospettiva che si può costruire validamente un’ottica personalista, non su di un umanesimo generico ed ateo. La morale scaturisce dalla conoscenza del valore della persona, quale si rivela dall’atteggiamento nei confronti dell’uomo, dalla sua donazione senza limiti in Gesù Cristo. E la vita di una persona ha questo valore inalienabile a partire da un’antropologia teologica cristocentrica, per cui il bene della vita umana può essere precisato nell’articolazione delle sue dimensioni fondamentali, evitando deprezzamenti materialistici o indebite sacralizzazioni. Le offese al matrimonio (divorzio, adulterio, unioni civili, ecc.) e la violazione della vita umana (aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, ecc.) derivano in ultima analisi nientemeno che da questo. Per questo abbiamo bisogno del “GPS” della Teologia morale, importante per chi quei fatti vuole capirli e indispensabile per chi su questi temi deve formarsi, per di più nell’ottica poi di aiutare altri a discernere e poi a scegliere. Penso ai vari educatori: sacerdoti, catechisti, operatori pastorali, ecc.
A livello metodologico – il secondo punto della nostra riflessione – la Teologia morale, occupandosi delle questioni riguardanti, tra tutte, la vita umana, la famiglia e il rispetto dovuto loro secondo la virtù della giustizia, riceve dalle varie discipline lo status quaestionis, cioè l’analisi del problema etico, insieme alle conclusioni della riflessione propria della filosofia morale, il che ordinariamente facilita un primo discernimento fra il lecito e l’illecito, il bene e il male. È la Teologia morale che ci spinge a resistere contro l’“ethically correct” come pretesa moderna di creare un piano di morbida tolleranza che si mette a “dialogare” con il male morale, anziché denunciarlo, e spende sofisticamente tante parole quando ne basterebbero due, quelle indicate da Nostro Signore: “Sì” e “No”. Purtroppo, sotto l’egida del “pluralismo” si crede che la morale si dovrebbe accontentare di una “grammatica minima” e di un’antropologia debole atte a ricoprire un ruolo di tipo procedurale, poiché le tematiche in questione si svolgono nell’arena pubblica, in cui si incontrano culture e religioni differenti. In particolare, si ritiene che un concetto di persona elaborato teologicamente, con riferimento alle verità di fede, sarebbe offensivo nel dibattito e comprometterebbe la validità dell’argomentazione razionale. Rispondiamo facilmente, innanzitutto, che questo modo di procedere, concettualmente, non riesce a superare l’orizzonte della soggettività e della convenzione intersoggettiva. Inoltre, sappiamo bene che il paravento del pluralismo è in realtà uno strumento ideologico per escludere a priori la verità fino a considerare la verità stessa come dannosa, compromettendo la ragione fino all’implosione della morale. Proprio perchè il presupposto della Teologia è un atto di fede nella Rivelazione, con ciò essa non rinuncia alla razionalità, nè si esclude dal dialogo. E questo senza necessità di attingere a modalità “globali”.
Il vero dato irragionevole è questo piuttosto: proporre questioni complicate e delicatissime, come tutte quelle che toccano la persona umana, svuotandole di quella verità sull’essere umano da cui dipendono e della disciplina – la Teologia morale – che più di tutte ha l’onorevole mandato di discernere cosa rispetta tale verità chiamando il bene e il male con il loro nome. Una strada senza partenza e senza arrivo, ma con un salato pedaggio da pagare.
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