Ecco il testo integrale della lettera che papa Francesco ha inviato ai suoi confratelli della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti che sono riuniti al Chicago’s Mundelein Seminary per un ritiro di preghiera, in seguito alla crisi degli abusi sessuali. E’ un ritiro che aveva suggerito proprio papa Francesco al posto del consueto incontro annuale dei vescovi USA che si è tenuto a novembre scorso (12-14) a Baltimora. I vescovi statunitensi hanno ritenuto di riunirsi ugualmente a novembre scorso, ma di aggiungere il ritiro che si sta tenendo in questi giorni. La lettera è stata consegnata dal predicatore della Casa Pontificia, il cappuccino padre Raniero Cantalamessa, in forma cartacea (e non elettronica). Essa è stata firmata il primo gennaio e consegnata il giorno dopo, in tarda serata. Tale lettera è cominciata a trapelare sui media il mattino seguente (si veda la foto). Forse per tale motivo, la lettera è stata pubblicata ieri mattina sia dalla Santa Sede che dalla Conferenza Episcopale degli Stati Uniti.

Nella lettera è palpabile la tensione che serpeggia tra i vescovi e il Vaticano. Una tensione che è aumentata sempre più dall’estate scorsa, quando il cardinale DiNardo, presidente della Conferenza Episcopale degli USA, ha pubblicamente invitato Papa Francesco a ordinare un’indagine sull’arcivescovo Theodore McCarrick, che a luglio è diventato il primo uomo in quasi un secolo a perdere il titolo di cardinale dopo che un’indagine ecclesiastica ha trovato credibile l’accusa di aver abusato di un adolescente nei primi anni Settanta. Nei giorni scorsi, tali accuse sono diventate sempre più gravi (accuse di molestie durante la Confessione) tanto che l’ex card. McCarrick, ora arcivescovo, potrebbe essere estromesso dall’ordine del sacerdozio. L’Arcivescovo McCarrick ha detto di essere innocente per l’accusa che coinvolge un adolescente e il suo avvocato ha detto che si aspetta un giusto processo.

Nel testo della lettera non è mai citato il nome dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, il quale alla fine di agosto ha pubblicamente accusato Papa Francesco di aver ignorato la storia di cattiva condotta sessuale dell’arcivescovo McCarrick con seminaristi e sacerdoti e, anzi, di averlo reso un suo potente consigliere. Però, dalle parole contenute nella lettera del papa è evidente il riferimento indiretto all’arcivescovo Viganò. Ricordo che il cardinale DiNardo ha detto che quelle accuse meritavano risposte corroborate da prove (vedere qui, ndr).

Vi riporto il testo integrale della lettera di papa Francesco, nella mia traduzione. 

 

Lettera di Papa Francesco ai vescovi USA del 01.01.2019 (via whispersintheloggia

Lettera di Papa Francesco ai vescovi USA del 01.01.2019 (via whispersintheloggia)

 

Cari fratelli,

 

Nel mio incontro del 13 settembre scorso con i responsabili della vostra Conferenza Episcopale, vi ho suggerito di fare insieme un ritiro, un tempo di isolamento, di preghiera e di discernimento, come passo necessario per rispondere nello spirito del Vangelo alla crisi di credibilità che state vivendo come Chiesa. Lo vediamo nel Vangelo: nei momenti critici della sua missione, il Signore si è ritirato e ha trascorso tutta la notte in preghiera, invitando i suoi discepoli a fare lo stesso (cfr Mc 14,38). Sappiamo che, data la gravità della situazione, nessuna risposta o approccio sembra adeguato; tuttavia, noi pastori dobbiamo avere la capacità, e soprattutto la saggezza, di dire una parola nata dal cuore, orante e collettivo della Parola di Dio e del dolore del nostro popolo. Una parola nata dalla preghiera dei pastori che, come Mosè, lotta e interce per il suo popolo (cfr Es 32,30-32).

In quell’incontro, ho detto al cardinale DiNardo e agli altri vescovi presenti del mio desiderio di accompagnarvi personalmente per alcuni giorni di quel ritiro, e questa offerta è stata accolta con gioia e anticipazione. Come Successore di Pietro, ho voluto unirmi a tutti voi nell’implorare il Signore per mandare il suo Spirito che “fa nuove tutte le cose” (cfr Ap 21,5) e per indicare le vie della vita che, come Chiesa, siamo chiamati a seguire per il bene di tutti coloro che ci sono stati affidati. Nonostante i miei sforzi, non potrò, per ragioni logistiche, essere fisicamente presente con voi. Questa lettera intende in qualche modo recuperare quel viaggio che non ha potuto essere compiuto. Sono anche lieto che abbiate accettato la mia offerta di far dirigere questo ritiro dal Predicatore della Casa Pontificia e di condividere la sua profonda saggezza spirituale.

Con queste poche righe, vorrei avvicinarmi a voi come fratello e riflettere con voi su alcuni aspetti che considero importanti, incoraggiando allo stesso tempo la vostra preghiera e i passi che state compiendo per combattere la “cultura dell’abuso” e per affrontare la crisi di credibilità.

“Ma tra voi non sarà cosí; anzi chiunque vorrà diventare grande tra voi, sarà vostro servo; e chiunque fra voi vorrà essere il primo, sarà schiavo di tutti.” (Mc 10,43-45). Con queste parole, Gesù interviene e riconosce l’indignazione dei discepoli che hanno sentito Giacomo e Giovanni chiedere di sedere a destra e a sinistra del Maestro (cfr Mc 10,37). Le sue parole ci aiuteranno a guidarci nella nostra riflessione comune.

Il Vangelo non teme di menzionare alcune tensioni, conflitti e dispute presenti nella vita della prima comunità di discepoli; sembrerebbe addirittura volerlo fare. Si parla di ricerca di luoghi d’onore, di gelosia, invidia e macchinazioni. Per non parlare degli intrighi e delle trame che, segretamente o apertamente, furono tratteggiate intorno al messaggio e alla persona di Gesù dai capi politici e religiosi e dai mercanti dell’epoca (cfr Mc 11, 15-18). Questi conflitti aumentavano con l’avvicinarsi dell’ora del sacrificio di Gesù sulla croce, poiché il principe di questo mondo, e il peccato e la corruzione, sembravano avere l’ultima parola, avvelenando tutto con amarezza, sfiducia e risentimento.

Come aveva profetizzato l’anziano Simeone, momenti difficili e critici possono portare alla luce i pensieri più profondi, le tensioni e le contraddizioni presenti nei discepoli individualmente e come gruppo (cfr Lc 2,35). Nessuno può considerarsi esente da questo; ci viene chiesto come comunità di fare in modo che in quei momenti le nostre decisioni, scelte, azioni e intenzioni non siano contaminate da questi conflitti e tensioni interiori, ma siano invece una risposta al Signore che è vita per il mondo. In tempi di grande confusione e incertezza, dobbiamo essere attenti e pieni di discernimento, per liberare il nostro cuore da compromessi e false certezze, per ascoltare ciò che il Signore ci chiede nella missione che ci ha dato. Molte azioni possono essere utili, buone e necessarie, e possono anche sembrare corrette, ma non tutte hanno il “sapore” del Vangelo. Per dirla in termini colloquiali, dobbiamo stare attenti che “la cura non diventi peggiore della malattia”. E questo richiede da parte nostra saggezza, preghiera, molto ascolto e comunione fraterna.

 

 

  1. “Ma tra voi non sarà cosí”

 

 

Negli ultimi anni, la Chiesa negli Stati Uniti è stata scossa da vari scandali che ne hanno gravemente intaccato la credibilità. Questi sono stati momenti di turbolenza nella vita di tutte le vittime che hanno subito nella loro carne l’abuso di potere e di coscienza e l’abuso sessuale da parte di ministri ordinati, religiosi e religiose e fedeli laici. Ma tempi di turbolenza e sofferenza anche per le loro famiglie e per l’intero Popolo di Dio.

La credibilità della Chiesa è stata gravemente compromessa e sminuita da questi peccati e crimini, ma ancor più dagli sforzi compiuti per negarli o nasconderli. Questo ha portato ad un crescente senso di incertezza, sfiducia e vulnerabilità tra i fedeli. Come sappiamo, la mentalità che ha portato a coprire le cose, lungi dall’aiutare a risolvere i conflitti, ha permesso loro di peggiorare e danneggiare ancora di più la rete di relazioni che oggi siamo chiamati a sanare e ristabilire.

Sappiamo che i peccati e i crimini che sono stati commessi, e le loro ripercussioni sul piano ecclesiale, sociale e culturale, hanno profondamente colpito i fedeli. Esse hanno causato grande scombussolamento, turbamento e confusione; e questo può spesso servire da pretesto per screditare e mettere in discussione la vita disinteressata di tutti quei tanti cristiani che mostrano “un immenso amore per l’umanità ispirato da Dio che si è fatto uomo”[1]. Quando il messaggio evangelico si rivela scomodo o inquietante, molte voci si levano nel tentativo di mettere a tacere quel messaggio indicando i peccati e le incoerenze dei membri della Chiesa e, ancor più, dei suoi pastori.

Il danno causato da questi peccati e delitti ha colpito profondamente anche la comunione dei vescovi, e ha generato non quel genere di sani e necessari disaccordi e tensioni che si trovano in ogni corpo vivente, ma piuttosto divisione e dispersione (cfr Mt 26,31). Questi ultimi non sono certamente frutti e stimoli dello Spirito Santo, ma piuttosto del “nemico della natura umana”[2], che sfrutta più la divisione e la dispersione che le tensioni e i disaccordi ragionevolmente attesi nella vita dei discepoli di Cristo.

La lotta contro la cultura dell’abuso, la perdita di credibilità, il conseguente smarrimento e confusione e il discredito della nostra missione ci impone con urgenza un approccio rinnovato e deciso alla risoluzione dei conflitti. Gesù ce lo direbbe:Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: ‘Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore’ (Mc 10,42-43). La perdita di credibilità richiede un approccio specifico, perché non può essere recuperata con severi decreti o semplicemente creando nuovi comitati o migliorando i diagrammi dei processi, come se fossimo responsabili di un dipartimento delle risorse umane. Questo tipo di visione finisce per ridurre la missione del vescovo e della Chiesa ad una mera funzione amministrativa o organizzativa nel “business dell’evangelizzazione”. Cerchiamo di essere chiari: molte di queste cose sono necessarie ma insufficienti, perché non possono cogliere e affrontare la realtà nella sua complessità; alla fine, rischiano di ridurre tutto a un problema organizzativo.

La perdita di credibilità solleva anche questioni dolorose sul modo in cui ci relazioniamo l’uno con l’altro. Chiaramente, un tessuto vivente si è disfatto e noi, come i tessitori, siamo chiamati a ripararlo. Questo comporta la nostra capacità, o incapacità, come comunità di creare legami e creare spazi sani, maturi e rispettosi dell’integrità e della privacy di ogni persona. Si tratta della nostra capacità di riunire le persone e di farle appassionare e avere fiducia in un progetto ampio e condiviso che sia allo stesso tempo modesto, solido, sobrio e trasparente. Questo richiede non solo un nuovo approccio alla gestione, ma anche un cambiamento di mentalità (metanoia), il nostro modo di pregare, la nostra gestione del potere e del denaro, il nostro esercizio dell’autorità e il nostro modo di relazionarci gli uni agli altri e al mondo che ci circonda. I cambiamenti nella Chiesa sono sempre volti a favorire un costante stato di conversione missionaria e pastorale capace di aprire nuovi percorsi ecclesiali sempre più in sintonia con il Vangelo e, come tale, rispettosi della dignità umana. L’aspetto programmatico della nostra attività deve essere unito ad un aspetto paradigmatico che ne esalta lo spirito e il significato di fondo. I due aspetti sono necessariamente collegati. Senza questa chiara e decisa focalizzazione, tutto ciò che facciamo rischia di essere contaminato dall’autoreferenzialità, dall’autoconservazione e dalla difesa, e quindi condannato fin dall’inizio. I nostri sforzi possono essere ben strutturati e organizzati, ma mancheranno di forza evangelica, perché non ci aiuteranno ad essere una Chiesa che dà una testimonianza credibile, ma piuttosto “un gong rumoroso, un cembalo tintinnante” (1 Cor 13,1).

In una parola, una nuova stagione ecclesiale ha bisogno di vescovi che possano insegnare agli altri a discernere la presenza di Dio nella storia del suo popolo, e non di semplici amministratori. Le idee possono essere discusse, ma è necessario discernere le situazioni vitali. Di conseguenza, in mezzo allo sconvolgimento e alla confusione vissuta dalle nostre comunità, il nostro dovere primario è quello di promuovere uno spirito comune di discernimento, piuttosto che cercare la relativa calma risultante da un compromesso o da un voto democratico in cui alcuni emergono come “vincitori” e altri no. No! Si tratta di trovare un modo collegiale e paterno di abbracciare la situazione attuale, che, cosa più importante, può proteggere coloro che si trovano nelle nostre cure dalla perdita di speranza e dal sentirsi spiritualmente abbandonati [3]. Questo ci permetterà di essere pienamente immersi nella realtà, cercando di apprezzarla e ascoltarla dall’interno, senza esserne tenuti in ostaggio.

Sappiamo che i tempi di prova e di tribolazione possono minacciare la nostra comunione fraterna. Ma sappiamo anche che essi possono diventare tempi di grazia che sostengono il nostro impegno verso Cristo e lo rendono credibile. Questa credibilità non sarà fondata su noi stessi, sulle nostre dichiarazioni, sui nostri meriti o sul nostro buon nome personale o collettivo. Tutti questi sono segni del nostro tentativo – quasi sempre inconsapevole – di giustificarci sulla base delle nostre forze e capacità (o della disgrazia di qualcun altro). La credibilità sarà il frutto di un corpo unito che, pur riconoscendone il peccato e i limiti, è allo stesso tempo capace di predicare il bisogno di conversione. Perché non vogliamo predicare noi stessi, ma Cristo morto per noi (cfr 2 Cor 4,5). Vogliamo testimoniare che nei momenti più oscuri della nostra storia il Signore si fa presente, apre nuove vie e unge la nostra fede incerta, la nostra speranza esitante e la nostra tiepida carità.

Una coscienza personale e collettiva dei nostri limiti ci ricorda, come diceva san Giovanni XXIII, che “non si deve immaginare che l’autorità non conosce limiti”[4]. Non può essere distante nel suo discernimento e nei suoi sforzi per perseguire il bene comune. Una fede e una coscienza priva di riferimento alla comunità sarebbe come un “trascendentale kantiano“: finirà per proclamare “un Dio senza Cristo, un Cristo senza la Chiesa, una Chiesa senza il suo popolo”. Essa creerà una falsa e pericolosa opposizione tra la vita personale ed ecclesiale, tra un Dio di puro amore e la carne sofferente di Cristo. Peggio ancora, potrebbe rischiare di trasformare Dio in un “idolo” per un particolare gruppo. Il costante riferimento alla comunione universale, come pure al magistero e alla tradizione secolare della Chiesa, salva i credenti dall’assolutizzare qualsiasi gruppo, periodo storico o cultura all’interno della Chiesa. La nostra cattolicità è in gioco anche nella nostra capacità di pastori di imparare ad ascoltarci a vicenda, a darci e ricevere aiuto gli uni dagli altri, a lavorare insieme e a ricevere l’arricchimento che altre chiese possono contribuire alla nostra sequela di Cristo. La cattolicità della Chiesa non può ridursi ad una semplice questione dottrinale o giuridica, ma ci ricorda che non siamo pellegrini solitari: “Se un membro soffre, soffrono tutti insieme” (1 Cor 12,26).

Questa consapevolezza collegiale del nostro essere peccatori bisognosi di una conversione costante, anche se profondamente angustiati e addolorati da tutto ciò che è accaduto, ci permette di entrare in comunione affettiva con il nostro popolo. Ci libererà dalla ricerca di forme false, facili e inutili di trionfalismo che difenderanno gli spazi piuttosto che avviare processi. Ci impedirà di rivolgerci a certezze rassicuranti che ci impediscono di avvicinarci e di apprezzare la portata e le implicazioni di quanto è accaduto. Aiuterà anche nella ricerca di misure adeguate, libere da false premesse o da formulazioni rigide che non sono più in grado di parlare o suscitare il cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo [5].

La comunione affettiva con i sentimenti del nostro popolo, con il loro scoraggiamento, ci spinge ad esercitare una paternità spirituale collegiale che non offre risposte banali o agisce in modo difensivo, ma cerca invece di imparare – come il profeta Elia tra le sue stesse difficoltà – ad ascoltare la voce del Signore. Quella voce non si trova nella tempesta o nel terremoto, ma nella calma che nasce dal riconoscere il nostro dolore davanti alla situazione attuale e dal lasciarci di nuovo convocare insieme dalla parola di Dio (cfr 1 Re 19,9-18).

Questo approccio ci impone la decisione di abbandonare un modus operandi di denigrazione, di discredito, di recitare la vittima o il rimprovero nelle nostre relazioni, e invece di fare spazio alla brezza leggera che solo il Vangelo può offrire. Non dimentichiamo che “l’assenza collegiale di un riconoscimento sentito e orante dei nostri limiti impedisce alla grazia di lavorare più efficacemente in noi, perché non c’è spazio per realizzare il bene potenziale che fa parte di un cammino di crescita sincero e autentico”[6]. Cerchiamo di spezzare il circolo vizioso della recriminazione, della sottovalutazione e del discredito, evitando pettegolezzi e calunnie nel perseguimento di un cammino di accettazione orante e contrita dei nostri limiti e peccati, e la promozione del dialogo, della discussione e del discernimento. Questo ci metterà a disposizione per trovare percorsi evangelici che possano risvegliare e incoraggiare la riconciliazione e la credibilità che il nostro popolo e la nostra missione ci chiedono. Lo faremo se riusciremo a smettere di proiettare sugli altri la nostra confusione e il nostro malcontento, che sono ostacoli all’unità[7], e osare di riunirci, in ginocchio, davanti al Signore e lasciarci sfidare dalle sue ferite, in cui potremo vedere le ferite del mondo. Gesù ce lo dice: “Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore“.

 

2) “Ma tra voi non sarà cosí; anzi chiunque vorrà diventare grande tra voi, sarà vostro servo; e chiunque fra voi vorrà essere il primo, sarà schiavo di tutti.”

 

Il popolo fedele di Dio e la missione della Chiesa continuano a soffrire molto a causa degli abusi di potere e di coscienza e degli abusi sessuali, e del modo povero in cui sono stati gestiti, così come il dolore di vedere un episcopato privo di unità e concentrato più sul puntare il dito che sulla ricerca di vie di riconciliazione. Questa situazione ci costringe a guardare all’essenziale e a liberarci di tutto ciò che ostacola una chiara testimonianza del Vangelo di Gesù Cristo.

Ciò che ci viene chiesto oggi è una nuova presenza nel mondo, conforme alla croce di Cristo, che prende forma concreta al servizio degli uomini e delle donne del nostro tempo. Penso alle parole di san Paolo VI all’inizio del suo pontificato: “Se vogliamo essere pastori, padri e maestri, dobbiamo agire anche come fratelli. Il dialogo prospera nell’amicizia, e soprattutto nel servizio. Tutto questo dobbiamo ricordare e cercare di mettere in pratica l’esempio e il precetto di Cristo (Gv 13,14-17)”[8].

Questo atteggiamento non riguarda il rispetto o il successo e la raccolta di applausi per le nostre azioni, ma richiede che noi pastori decidiamo davvero di essere un seme che crescerà quando e dove meglio il Signore deciderà. Questa decisione ci salverà dal cadere nella trappola di misurare il valore dei nostri sforzi secondo gli standard del funzionamento ed efficienza che governano il mondo degli affari. La via da percorrere è piuttosto quella dell’apertura all’efficacia e alla forza trasformatrice del Regno di Dio, che, come un seme di senape, il più piccolo e insignificante dei semi, diventa un albero in cui nidificano gli uccelli dell’aria (cfr Mt 13,32-33). In mezzo alla tempesta, non dobbiamo mai perdere la fede nella forza silenziosa, quotidiana ed efficace dello Spirito Santo all’opera nei cuori umani e in tutta la storia.

La credibilità nasce dalla fiducia, e la fiducia nasce dal servizio sincero, quotidiano, umile e generoso a tutti, ma soprattutto ai più cari al cuore del Signore (cfr Mt 25, 31-46). Sarà un servizio offerto non per interesse di marketing o di strategia per recuperare il prestigio perduto o per cercare riconoscimenti, ma piuttosto – come ho insistito nella recente Esortazione Apostolica Gaudete et Exsultate – perché appartiene al “cuore pulsante del Vangelo” [9].

La chiamata alla santità ci impedisce di cadere in false dicotomie e modi riduttivi di pensare, e di rimanere in silenzio di fronte a un clima incline all’odio e al rifiuto, alla disunione e alla violenza tra fratelli e sorelle. La Chiesa, come “segno e strumento di comunione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium, 1), porta nel cuore e nell’anima la sacra missione di essere luogo di incontro e di accoglienza non solo per i suoi membri, ma per tutta l’umanità. Fa parte della sua identità e missione lavorare instancabilmente per tutto ciò che può contribuire all’unità tra gli individui e i popoli come simbolo e sacramento del sacrificio di Cristo sulla croce per tutti gli uomini e le donne, senza distinzione. Perché “non esiste tra voi ebreo o greco, schiavo o libero, maschio o femmina. Tutti sono uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Questo è il servizio più grande che ella offre, tanto più oggi, quando assistiamo a una retorica incendiaria e a pregiudizi vecchi e nuovi. Le nostre comunità oggi devono testimoniare in modo concreto e creativo che Dio è il Padre di tutti, e che ai suoi occhi siamo tutti suoi figli e figlie. La nostra credibilità dipende anche dalla misura in cui, accanto agli altri, contribuiamo a rafforzare un tessuto sociale e culturale che non solo rischia di sciogliersi, ma anche di ospitare e facilitare nuove forme di odio. Come Chiesa, non possiamo essere tenuti in ostaggio da questa o quella parte, ma dobbiamo essere attenti a partire sempre da coloro che sono più vulnerabili. Con le parole della Preghiera Eucaristica, chiediamo al Signore che, “in un mondo dilaniato dalle lotte, il vostro popolo risplenda come segno profetico di unità e concordia” (Messe per le varie necessità, I).

Come è sublime il compito a portata di mano, fratelli, non possiamo tacere o sminuire il compito a causa dei nostri limiti e difetti! Ricordo le sagge parole di Madre Teresa di Calcutta, che possiamo ripetere, sia come individui che insieme: “Sì, ho molte colpe e fallimenti umani….. Ma Dio si china e usa noi, tu ed io, per essere il suo amore e la sua compassione nel mondo; porta i nostri peccati, le nostre difficoltà e le nostre colpe. Egli dipende da noi per amare il mondo e per mostrare quanto lo ama. Se ci preoccupiamo troppo di noi stessi, non avremo tempo per gli altri”[10].

Cari fratelli, il Signore era ben consapevole che, nell’ora della croce, la mancanza di unità, divisione e dispersione, come pure i tentativi di fuga da quell’ora, sarebbero state le più grandi tentazioni affrontate dai suoi discepoli – atteggiamenti che avrebbero distorto e ostacolato la loro missione. Per questo ha chiesto al Padre di vegliare su di loro, affinché in quei momenti fossero una cosa sola, come lui e il Padre sono una cosa sola, e nessuno di loro andasse perduto (cfr Gv 17,11-12). Entrando con fiducia nella preghiera di Gesù al Padre, vogliamo imparare da lui e, con ferma determinazione, iniziare questo tempo di preghiera, silenzio e riflessione, di dialogo e comunione, di ascolto e discernimento. In questo modo, gli permetteremo di conformare i nostri cuori alla sua immagine e ci aiuteremo a scoprire la sua volontà.

In questo cammino non siamo soli. Fin dall’inizio, Maria ha accompagnato e sostenuto la comunità dei discepoli. Con la sua presenza materna ha aiutato la comunità a non perdere il suo orientamento dividendosi in gruppi chiusi o pensando che potesse salvarsi. Ha protetto la comunità dei discepoli dall’isolamento spirituale che porta all’egocentrismo. Con la sua fede, li ha aiutati a perseverare nella perplessità, confidando che la luce di Dio sarebbe venuta. Le chiediamo di tenerci uniti e perseveranti come il giorno di Pentecoste, affinché lo Spirito sia riversato nei nostri cuori e ci aiuti in ogni tempo e luogo a testimoniare la risurrezione.

Cari fratelli, con questi pensieri sono tutt’uno con voi in questi giorni di ritiro spirituale. Prego per voi; vi prego di fare lo stesso per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vegli su di voi.

 

Fraternamente,

 

                                                                FRANCESCO

 

Fonte: whispersintheloggia

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