“È giusto sbagliare e ammettere dove si è sbagliato e cosa si è imparato. È una parte centrale del funzionamento della scienza. Temo però che molti siano troppo radicati nel pensiero di gruppo e troppo timorosi di assumersi pubblicamente la responsabilità di farlo.” Così scrive Kevin Bass, un dottorando (Phd) di medicina. Il PhD è il più alto titolo accademico rilasciato da un’università, successivo alla laurea. L’articolo di Kevin Bass è stato pubblicato su Newsweek, e ve lo propongo nella mia traduzione.
In qualità di studente di medicina e di ricercatore, ho sostenuto con convinzione gli sforzi delle autorità sanitarie pubbliche quando si è trattato di COVID-19. Ritenevo che le autorità avessero risposto alla più grande crisi di salute pubblica della nostra vita con compassione, diligenza e competenza scientifica. Ero al loro fianco quando hanno chiesto i lockdown, di somministrare vaccini e di fare richiami.
Mi sbagliavo. Noi della comunità scientifica ci sbagliavamo. E questo è costato vite umane.
Ora capisco che la comunità scientifica, dai CDC all’OMS, alla FDA e ai loro rappresentanti, ha ripetutamente sopravvalutato le prove e ingannato l’opinione pubblica sulle proprie opinioni e politiche, anche per quanto riguarda l’immunità naturale o artificiale, la chiusura delle scuole e la trasmissione delle malattie, la diffusione [del virus via] aerosol, l’obbligo della mascherina, l’efficacia e la sicurezza dei vaccini, soprattutto tra i giovani. Tutti questi erano errori scientifici all’epoca, non col senno di poi. Sorprendentemente, alcuni di questi errori continuano ancora oggi.
Ma forse più importante di ogni singolo errore è stato il fatto che l’approccio complessivo della comunità scientifica era, e continua a essere, intrinsecamente difettoso. Un errore che ne ha minato l’efficacia e che ha provocato migliaia, se non milioni, di morti evitabili.
Non ci siamo resi conto che le preferenze determinano il modo in cui viene utilizzata la competenza scientifica e che le nostre preferenze potrebbero essere – anzi, erano – molto diverse da quelle di molte persone che serviamo. Abbiamo creato una politica basata sulle nostre preferenze e l’abbiamo giustificata con i dati. E poi abbiamo dipinto coloro che si opponevano ai nostri sforzi come fuorviati, ignoranti, egoisti e malvagi.
Abbiamo fatto della scienza uno sport di squadra e, così facendo, l’abbiamo resa non più scienza. Siamo diventati noi contro loro, e “loro” hanno risposto nell’unico modo che ci si poteva aspettare: resistendo.
Abbiamo escluso parti importanti della popolazione dallo sviluppo delle politiche e abbiamo castigato i critici, il che ha significato dispiegare una risposta monolitica in una nazione eccezionalmente diversificata, forgiare una società più lacerata che mai e aggravare le disparità economiche e sanitarie di lunga data.
La nostra reazione emotiva e la radicata partigianeria ci hanno impedito di vedere il pieno impatto delle nostre azioni sulle persone che dovremmo servire. Abbiamo sistematicamente minimizzato gli aspetti negativi degli interventi che abbiamo imposto, imposti senza il contributo, il consenso e il riconoscimento di coloro che sono costretti a conviverci. Così facendo, abbiamo violato l’autonomia di coloro che sarebbero stati maggiormente colpiti dalle nostre politiche: i poveri, la classe operaia, i piccoli imprenditori, i neri e i latinos, i bambini. Queste popolazioni sono state trascurate perché rese invisibili dalla loro sistematica esclusione dalla macchina mediatica dominante e corporativa che presumeva di essere onnisciente.
La maggior parte di noi non si è espressa a favore di punti di vista alternativi e molti hanno cercato di sopprimerli. Quando voci scientifiche forti, come i professori di fama mondiale di Stanford John Ioannidis, Jay Bhattacharya e Scott Atlas, o i professori dell’Università della California San Francisco Vinay Prasad e Monica Gandhi, hanno lanciato l’allarme a favore di comunità vulnerabili, hanno dovuto affrontare una severa censura da parte di folle implacabili di critici e detrattori della comunità scientifica, spesso non sulla base di fatti, ma solo sulla base di differenze di opinione scientifica.
Quando l’ex presidente Trump ha sottolineato gli aspetti negativi dell’intervento, è stato liquidato pubblicamente come un buffone. E quando il dottor Antony Fauci si è opposto a Trump ed è diventato l’eroe della comunità della salute pubblica, gli abbiamo dato il nostro sostegno per fare e dire ciò che voleva, anche quando aveva torto.
Trump non era lontanamente perfetto, né lo erano i critici accademici della politica del consenso. Ma il disprezzo che abbiamo riservato loro è stato un disastro per la fiducia del pubblico nella risposta alla pandemia. Il nostro approccio ha allontanato ampi segmenti della popolazione da quello che avrebbe dovuto essere un progetto nazionale e collaborativo.
E ne abbiamo pagato il prezzo. La rabbia di coloro che sono stati emarginati dalla classe degli esperti è esplosa e ha dominato i social media. Non avendo il lessico scientifico per esprimere il proprio disaccordo, molti dissidenti si sono rivolti a teorie cospirative e a un’industria di contorsionisti scientifici per far valere le proprie ragioni contro il consenso della classe di esperti che dominava il mainstream della pandemia. Etichettando questi discorsi come “disinformazione” e attribuendoli all'”analfabetismo scientifico” e all'”ignoranza”, il governo ha cospirato con Big Tech per sopprimerli aggressivamente, cancellando le valide preoccupazioni politiche degli oppositori del governo.
E questo nonostante il fatto che la politica sulle pandemie sia stata creata da una sottilissima fetta della società americana che si è auto-incaricata di guidare la classe lavoratrice: membri del mondo accademico, del governo, della medicina, del giornalismo, della tecnologia e della sanità pubblica, che sono altamente istruiti e privilegiati. Questa élite, dall’alto del suo privilegio, premia il paternalismo, al contrario degli americani medi che lodano la fiducia in se stessi e la cui vita quotidiana richiede regolarmente di fare i conti con il rischio. Il fatto che molti dei nostri leader abbiano trascurato di considerare l’esperienza vissuta di coloro che si trovano al di là del divario di classe è inconcepibile.
Incompresi da questo divario di classe, abbiamo giudicato severamente i critici del lockdown come pigri, arretrati, persino malvagi. Abbiamo liquidato come “truffatori” coloro che rappresentavano i loro interessi. Credevamo che la “disinformazione” eccitasse gli ignoranti e ci rifiutavamo di accettare che queste persone avessero semplicemente un punto di vista diverso e valido.
Abbiamo elaborato una politica per la gente senza consultarla. Se i nostri funzionari della sanità pubblica avessero agito con meno arroganza, il corso della pandemia negli Stati Uniti avrebbe potuto avere un esito molto diverso, con un numero di vite umane molto inferiore.
Invece, abbiamo assistito a una massiccia e continua perdita di vite umane in America, dovuta alla sfiducia nei vaccini e nel sistema sanitario; a una massiccia concentrazione di ricchezza da parte di élite già ricche; a un aumento dei suicidi e della violenza da arma da fuoco, soprattutto tra i poveri; a un tasso quasi raddoppiato di depressione e disturbi d’ansia, soprattutto tra i giovani; a una catastrofica perdita di risultati scolastici tra i bambini già svantaggiati; e, tra i più vulnerabili, a una massiccia perdita di fiducia nell’assistenza sanitaria, nella scienza, nelle autorità scientifiche e, più in generale, nei leader politici.
La motivazione che mi spinge a scrivere questo articolo è semplice: Per me è chiaro che, per ripristinare la fiducia dell’opinione pubblica nella scienza, gli scienziati dovrebbero discutere pubblicamente cosa è andato bene e cosa è andato male durante la pandemia e dove avremmo potuto fare meglio.
È giusto sbagliare e ammettere dove si è sbagliato e cosa si è imparato. È una parte centrale del funzionamento della scienza. Temo però che molti siano troppo radicati nel pensiero di gruppo e troppo timorosi di assumersi pubblicamente la responsabilità di farlo.
Per risolvere questi problemi a lungo termine è necessario un maggiore impegno verso il pluralismo e la tolleranza nelle nostre istituzioni, compresa l’inclusione di voci critiche e impopolari.
L’elitarismo intellettuale, il credenzialismo e il classismo devono finire. Da questo dipende il ripristino della fiducia nella sanità pubblica e nella nostra democrazia.
Kevin Bass
Kevin Bass è uno studente di medicina/dottorato in una scuola di medicina del Texas. È al 7° anno.
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente le opinioni del responsabile di questo blog. Sono ben accolti la discussione qualificata e il dibattito amichevole.
Sostieni il Blog di Sabino Paciolla
Scrivi un commento