Fantasy. Foto di Stefan Keller da Pixabay

 

 

di Mattia Spanò

 

Da un po’ di tempo, come tutti, osservo i volti, le movenze e ascolto le parole dei guru del Great Reset.

Quanto a questo alcuni di loro, penso in particolare a Bill Gates e Yuval Noah Harari, sono lombrosianamente simili al ragazzino nerd stravolto da un’estate passata a giocare a Dungeons & Dragons nella propria cameretta, invece che fare scorribande nei boschi con gli amici.

Altri, come Klaus Schwab e George Soros, hanno fisionomie prese di peso da Guerre Stellari, la fantasmagoria di creature mostruose che ci ammorba da decenni.

Dungeons & Dragons è un gioco fantasy cosiddetto “di ruolo” in cui i giocatori, seguendo una manuale di regole corposo e complesso, inventano un mondo di maghi, streghe, orchi e gnomi, tutti guerrieri, agendo sotto la guida di un Game Master, il vero padrone del gioco, che inventa il contesto e gli sviluppi della storia, gli ostacoli, le avventure, le battaglie.

La cultura popolare di massa non fornisce soltanto interpretazioni tardive dei fenomeni, ma forma in silenzio schiere di adolescenti che domani penseranno e agiranno secondo ciò che apprendono, soprattutto attraverso il gioco, negli anni dell’adolescenza.

È significativo che fra i giochi più popolari al mondo nel secondo dopoguerra ci siano Risiko! e appunto D&D.

Il primo emula la guerra, il secondo crea un mondo di infiniti duelli personali o corpuscolari – i giocatori stabiliscono alleanze e dispongono di più personaggi a testa.

Mentre in Risiko! il riferimento è la guerra, tutti contro tutti e l’esito è un misto di senso strategico e fortuna a dadi, nel secondo, oltre ai dadi con un numero di facce più elevato di quelli tradizionali, esiste una sorta di dio, il Game Master, che crea il mondo e la storia.

Risiko! esce a metà degli anni ’50 in Francia, D&D a metà degli anni ’70 negli Stati Uniti. È probabile che gli inventori abbiano visto la guerra, ma in due modi diversi: il primo molto da vicino, il secondo molto da lontano. In effetti, sembra che entrambi i giochi derivino dai war games reali usati per addestrare i soldati.

Il primo gioco offre una rappresentazione semi-realistica della guerra che alla fine vede un vincitore e molti sconfitti. Il secondo invece propone una visione totalmente fantastica, fatta di poteri magici e creature mitiche, potenzialmente infinito e denso di duelli personali, scaramucce e ogni sorta di imprevisto.

Alla base di entrambi si trovano forse la paura e l’orrore per la guerra appena trascorsa, ma elaborata in due modi profondamente distanti l’uno dall’altro: Risiko! imita la guerra, brutale ma breve (la partita finisce in qualche ora, al massimo qualche giorno dopo).

D&D impone di pensare un mondo alternativo in fuga da quello materiale, ne ridefinisce radicalmente i contorni violando le leggi presiedono il mondo fisico, e soprattutto potrebbe non avere una fine (le partite possono durare anni, la più lunga dura da 40).

Gli americani, giova ricordarlo, hanno versato un contributo di sangue elevato in guerra – benché il numero di soldati morti nelle due guerre mondiali sia inferiore a quelli della Guerra di Secessione, a tutti gli effetti una guerra civile – ma non hanno mai vissuto un’invasione né visto le due guerre mondiali dalla finestra di casa. Soprattutto sono morti da soldati, non come muratori, agenti di cambio, sarte, maestre e scolari.

Difatti nell’immaginario americano la Guerra di Secessione, quella vera, crudele e spietata, occupa uno spazio culturale relativo, diversamente dalle guerre lontane o combattute in “altri mondi” (Pacifico e Giappone, Normandia e Anzio) non solo mentali, ma che finiscono per sublimare nella fantasia – si pensi anche al successo delle saghe Marvel e DC.

Gli americani vedevano partire giovani soldati e rientrare bare, tuttavia il passaggio fra il ragazzo vivo e il cadavere lo hanno per lo più percepito grazie alla narrazione mediatica e in seguito storica, ma soprattutto mitologica. Mentre gli europei hanno un approccio culturale alla guerra, quello americano si accosta più al cultuale.

In qualche modo il nesso fra la vita e la morte violenta e prematura è loro sfuggito, se così si può dire, mentre un europeo, russi compresi, sapeva perfettamente come questo passaggio avveniva, perché lo aveva davanti agli occhi.

L’anello mancante, se posso dir così, non alleggerisce il fardello. Al contrario lo aggrava: la più terribile delle realtà vissute porta con sé una sorta di consolazione data dal contatto fisico con la circostanza (si pensi alla tragedia che vivono i genitori di bambini scomparsi rispetto a quelli che possono seppellire i propri figli: non sapere se tuo figlio è vivo o morto, non sapere dove si trova il corpo – il corpo, non l’anima apparentemente perduta con esso –  è una pena inimmaginabile, capace di sbriciolare ogni speranza di forza).

Non a caso gli americani hanno sviluppato un’enorme immaginazione alternativa della Storia (si pensi ad Hollywood: al di là della distinzione fra trame realistiche e fantastiche, i film americani e anche in parte la letteratura funzionano perché sono “spettacolo mitologico” con somiglianze molto pronunciate, ad esempio, con la tragedia greca dove la rappresentazione del mito sopravanzava, e non poco, la realtà).

In una situazione simile, è persino normale che l’anello mancante venga fabbricato, perché appunto non può mancare, e che il mondo e la vita possano essere in qualche modo sostituiti da una loro rappresentazione, il che però pone alcune questioni importanti circa la qualità fondamentale della medesima.

Si tratta di una rappresentazione che mette in guardia dalla realtà, che la fonda e la conserva nei suoi elementi costitutivi sondandone la profondità, oppure di una rappresentazione che deve realizzarsi in opposizione ad essa, grattando via la superficie quasi si trattasse di un disegno a tempera, per ridisegnarla ma demolendo senza volere il muro sottostante?

Quello che gli ideologi del Great Reset propongono, siano essi giocatori o l’incarnazione di alcuni mostriciattoli similari, è molto simile al modello D&D. Si comportano, raccontano, influenzano il gioco come i Game Master.

Alcuni si stanno interrogando sul perché e il per come la maggior parte delle persone non reagisca ma assista prima alla pandemia – lockdown, Netflix e pizza a domicilio portata da fattorino in bicicletta – poi  alla guerra – anatemi e malefici scagliati contro Putin, mentre il grano per la pizza e l’elettricità che alimenta Twitter e Netflix fanno ciao come le caprette di Heidi – come se fossero appunto un gioco, un divertissement.

Una possibile risposta è che le masse effettivamente prendano parte ad un gioco come D&G, nel quale si figurano davvero di giocare un ruolo (si sentono “responsabili e altruisti” vaccinandosi, ritengono che esecrare Putin o scendere in piazza con le candeline serva davvero a intimidire l’orso russo e farlo capitolare).

Stanno giocando, e il gioco non deve finire: mascherine che neutralizzano il volto, pozioni magiche con cui disinfettarsi le mani, siringhe con le quali combattere il virus, la visione stregonesca dell’altro che può annichilirti soffiandoti addosso, e lo hobbit Zelensky che presto o tardi avrà ragione di Sauron.

Non bastasse, il carattere palesemente ludico del “Great D&D Reset” lo si coglie nel cambiamento radicale della percezione della morte. La naturalezza del “sei morto” con la quale il Game Master ti annunciava la fine di uno dei tuoi avatar si è trasmessa alla realtà e soprattutto alla finzione della medesima.

Pensiamo alla squisita leggerezza con la quale si è augurato ogni genere di morte dolorosa ai no-vax, evocando campi di concentramento, esecuzioni sommarie, fosse comuni e altre prelibatezze.

La stessa incantevole naturalezza con la quale si dice che al mondo siamo in troppi, o si gioisce per le presunte migliaia di soldati russi morti in guerra o si augura la morte a Putin – il dolore per la sofferenza degli ucraini è puramente strumentale: coerentemente, si dovrebbe gioire perché la guerra spazza via inutili produttori di CO2 che appestano il pianeta.

La stessa tranquillità salottiera e disinvolta con cui si discetta dell’uso di armi nucleari – anche qui: bisognerebbe domandare ai giapponesi, gli unici che ne hanno viste un paio, come ci si sente alzandosi dal divano dopo il botto.

L’idea che tutto sia assimilabile ad un gioco di ruolo, essenzialmente mentale (nulla di male può realmente capitarci, perché nella mitologia noi siamo i buoni, che alla fine sudano un po’ ma la spuntano), ha preso spaventosamente il sopravvento. Non a capocchia, ritengo, si parla di “intelligenza artificiale” (l’intelligenza è astratta, ideale) invece di parlare di “cervello artificiale” (il cervello è un organo fisico, concreto).

Cosa accade al corpo, per il Game Master, è irrilevante: pensa di fare l’upload della coscienza dentro la macchina, garantendosi l’eternità nei server. Almeno finché qualcuno non spegne la luce.

Partecipare ad un gioco di ruolo, come avatar o come Game Master, non sottrae però alla psicologia del giocatore meravigliosamente descritta da Dostoevskij nell’omonimo romanzo: un groviglio di tensioni fra forze opposte, che se da una parte vede il protagonista edificare una sorta di cattedrale alle proprie aspirazioni, dall’altra lo lascia miseramente in mutande.


 

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