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La seconda indicazione che la liturgia ci dà come segno della Quaresima, oltre alla preghiera e alla Carità fraterna, è la parola “digiuno” o “sacrificio”. 
 
Immediatamente questo significa una temperanza nell’impeto, nell’istintonell’uso dell’istinto. Temperare, in latino, vuol dire governare secondo lo scopo, “allo scopo di”, sia come direzione sia come tempo: mantenere la cosa nell’ordine dinamico verso il suo scopo.
 
Potremmo allora tradurre l’invito al sacrificio, alla mortificazione e al digiuno, come fedeltà a ciò che, in quella cosa  in cui ci dobbiamo temperare o mortificare,  è “più significativo”. 
 
C’è, infatti, un significato immediato della cosa: uno ha fame, si avventa; uno prova affezione, “tac”, si “accolla”.  (Ci sarebbe anche un terzo campo, la vanagloria, l’orgoglio, l’affermazione ingorda di sé, la sete di possesso economico-politico. Ma questo attiene di più all’altra indicazione, della carità fraterna).
 
Nel mangiare e bere, invece, ciò che è più significativo è che essi sono strumenti per il nostro cammino, non è l’abboffarsi o il sentire tutto il palato reagire dolcemente e vibrantemente al contatto con le molecole del vino. La quaresima ci richiama a questa mortificazione come espressione concreta della ricerca del “più  significativo” , anche nel mangiare e nel bere. 
 
La parola digiuno immediatamente, infatti, nella storia liturgica, indicava questo.  
 
Ma soprattutto dobbiamo centrare la nostra attenzione sull’affettività
è proprio nell’affettività che questo sacrificio, questa mortificazione, come fedeltà al più significativo, deve agire, e deve agire stando bene all’erta, deve agire senza posa, senza addormentarsi, senza parentesi di dimenticanza.
 
Nell’affezione il più significativo non è l’aderire al riverbero immediato che l’affezione (a qualunque livello) ha. Nell’affettività, infatti, ci sono un affiatamento e una tensione che, espressi in un certo modo, cioè se non sono temperati, alterano e fanno uscire dalla strada. 
 
La parola mortificazione non ci deve impaurire, perché la morte è già in quella separazione per cui, anche nell’intimità più grande, uno non può immedesimarsi veramente con l’altro. 
Ciò che fa immedesimare veramente con l’altro è proprio la ricerca del più significativo, è la fedeltà al più significativo, perché l’immedesimazione totale è «in Cristo», come diceva san Paolo. La formula di san Paolo – «in Cristo», «fate tutto in Cristo», «il mondo in Cristo» – indica l’unità profonda e finale fra tutto, come ciò cui siamo destinati. E se noi diciamo sempre che la liberazione è l’unità e che la schiavitù è la divisione, dobbiamo sentire questo richiamo, non come nemico, ma come amico. 
 
C’è un riverbero di questa “fedeltà al più significativo” – che deve operare atteggiamenti di reale mortificazione -, c’è un test, un risultato: la libertà, la libertà nella cosa. Questo è proprio un test. 
 
È da questo che si percepisce fisicamente la fedeltà al più significativo, ed è questo che la mortificazione opera, esalta ed edifica: la libertà.  Libertà dal risultato, per cui uno finalmente è capace di voler bene all’altro, libero dalla risposta dell’altro, dal modo di corrispondenza dell’altro: è veramente la libertà, è veramente l’amare e basta, l’amore finalmente senza la menzogna. 
 
E, in secondo luogo, la libertà da se stessi, cioè dal gusto. 
 
La libertà dal risultato, dall’altro, e la libertà dal gusto (anche dalla montagna, per esempio, dalla neve, dalla roccia e dal ghiacciaio; altrimenti, se non è la ricerca del più significativo, l’andarci diventa fare il Club Alpino). 
 
 
 
 
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