Fedor Dostoevskij, scrittore russo
Fedor Dostoevskij, scrittore russo

 

 

di Giovanna Ognibeni

 

“E perché dovremmo aver pietà di te?” gridò il padrone che era appena ricomparso.

Perché aver pietà di me, tu dici? Sì, non c’è da aver pietà di me. Bisogna crocifiggermi, crocifiggermi sulla croce, e non aver pietà di me!… Pensi tu, mercante, che questa tua mezza bottiglia mi sia stata una gioia? Il dolore, il dolore ho cercato sul suo fondo, il dolore e le lacrime, e assaporati, li ho trovati; e avrà pietà di noi colui che ha avuto pietà di tutti e che ha capito tutto e tutti; egli è l’unico, egli è il giudice, verrà  in quel giorno… E giudicherà e perdonerà tutti, buoni e malvagi, sapienti e umili… e quando tutto sarà finito con tutti, si rivolgerà anche a noi e dirà: “Venite anche voi! Venite, ubriaconi, venite deboli, venite svergognati!”… E ci dirà: “Siete dei porci, voi! In voi c’è l’immagine della bestia, sigillo della bestia; ma venite anche voi!”. E esclameranno i sapienti, esclameranno i ben pensanti: “Signore! Perché accogli costoro?”. E dirà: “Perché li accolgo, sapienti, perché li accolgo, ben pensanti? Perché nessuno di essi ha mai pensato di essere ben accolto…”. E ci tenderà le sue braccia, e noi cadremo tra le sue braccia… e piangeremo… e capiremo tutto! Allora capiremo tutto! E tutti capiranno…anche Katerina Ivanovna… anche lei capirà… Signore, venga il regno tuo!”.

Queste parole vengono pronunciate in Delitto e Castigo di Dostojevskij dal consigliere titolare, ubriacone irredimibile, Marmeladov, in un colloquio con il protagonista, futuro assassino, lo studente Raskol’nikov. Di Marmeladov non sapremo mai il patronimico che nella società russa, non solo di allora, colloca ogni individuo in relazione col padre e quindi in un legame che gli dà, per così dire, consistenza; l’ubriacone è infatti fuori dal tessuto sociale. La radice del nome Raskol’nikov significa scisma, separazione: due senza patria, senza legami, che si incontrano in una bettola. Il primo si sta bevendo gli ultimi spiccioli del suo stipendio che sarebbe dovuto servire a mantenere la moglie, ormai tisica all’ultimo stadio, e tre bambini. Per un atto di compassione del suo superiore era stato appena riassunto nel suo impiego ed ora, appena dopo il suo primo stipendio, nottetempo ha ‘rubato’ quel che ne restava e se l’è “bruciato” nell’osteria insieme alla sua divisa. 

Un individuo senza speranza, senza alcuna possibilità di riscatto.

(Piccola nota: il personaggio può apparire esagerato, à la russe: a noi pare eccessivo ed eccessivi i suoi guai, un po’ come in certi film irlandesi in cui la protagonista, oberata di nove figli, il cui marito, quando c’è, è un alcolizzato manesco, lavandaia per mantenere la prole destinata, questa, o al marciapiede o alle patrie galere, viene sfrattata già nel primo tempo. Eppure, se si legge della grande carestia che negli anni ’40 del diciannovesimo secolo causò in Irlanda milioni di morti ed emigrati, forse si capisce come l’onda lunga della miseria possa essere appunto molto lunga… Allora anche la miseria, e le miserie pietroburghesi sono da prendersi per vere…).

Comunque sia, Marmeladov è una vittima del sistema e ha bisogno di tutta la nostra comprensione e misericordia. E la trova perché in questi nostri fulgidi anni si assiste ai trionfi della misericordia, innanzi tutto sul fronte laico, che si estende dall’ateo puro e duro, dall’agnostico sino al credente così così, al cattolico adulto o in efflorescente crisi adolescenziale che celebra il suo affrancamento dalla morale cristiana, e cattolica in particolare, superandola in una visione più ampia ed inclusiva degli umani destini. 

Per prima cosa ha razionalizzato, dandogli efficienza, il sentimento di compassione verso gli infelici, meglio i disagiati: ecco che le sette opere di misericordia corporali vengono sottratte al capriccio e all’improvvisazione dei singoli ed incanalate in strutture specializzate, come Onlus e Ong, che si occupano di tutto. All’individuo basta, tendenzialmente e sostanzialmente, comporre il numero in sovrimpressione e versare il suo obolo.  Non voglio minimamente ridurre o ridicolizzare l’atto generoso del singolo; tuttavia il sistema impedisce il contatto tra chi offre e chi ottiene, e così vanifica la possibile radicale esperienza del farsi perdonare dai poveri l’elemosina che gli si fa (probabile copyright di San Vincenzo De Paoli). Insomma tutto procede all’insegna del marketing, paghi uno e prendi due, cioè hai la soddisfazione di fare del bene e ti sei levato tutti gli impicci del farlo. A cosa serva dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati è intuitivo, a farli star bene! Meno intuitive sono le opere di misericordia spirituale: anch’esse dovrebbero servire a far star bene le persone, non dal punto di vista spirituale, ché chissenefrega, ma almeno sotto il profilo psicologico e della realizzazione di sé. (È dagli anni ’60 che la gente insegue l’araba fenice del realizzarsi: il benessere).

Quelle opere sono ormai tutte pateticamente out e financo imbarazzanti, come insegnare agli ignoranti, consigliare i dubbiosi, perdonare le offese e così via. Per quello c’è lo psicologo, e persino il bonus psicologo.

Ma la peggiore di tutte è quella di ammonire i peccatori. Come un novello Alessandro Magno, in procinto di conquistare il mondo, il pensiero moderno ha sciolto il nodo gordiano con un deciso colpo di spada: nessuno ha più bisogno di essere perdonato di alcunché. Intanto, il concetto stesso di peccato ha uno statuto logico piuttosto precario, e di questo è perfettamente consapevole proprio la gente comune, la casalinga di Voghera che è in ognuno di noi. Provate a parlare con amici e parenti, o ancor meglio ascoltate una trasmissione televisiva in cui la gente parla di sé, un qualunque format pomeridiano ad esempio. Le persone si presentano elencando le proprie virtù, a cominciare dall’essere solari, generose, amanti degli animali e della pace, attente alla biodiversità, sincere e oneste. Se poi sono donne, pardon femmine native, poiché bisogna ammettere che eccellono in tali esercizi retorici, tra gli altri pregi, hanno anche figli splendidi. Da chi nascano i ragazzini bruttini e antipatici, che pur pullulano nelle nostre strade, rimane un mistero.    

Se devono confessare anche dei difetti, dopo aver faticato un po’ a pensarci su, ammettono di essere volitive e, forse, troppo buone. Capiamoci, hanno la strabiliante capacità di trasformare i loro difetti le loro mancanze in pregi: non diranno mai di essere delle gran teste di cavolo che non danno mai ascolto agli altri, e che si comportano da insopportabili egocentriche, no certo, loro sono solo determinate/i. Questo singolare fenomeno di strabismo morale e logico coglie anche il cattolico che va a confessarsi (noiosa formalità che tarda a sparire) perché, come disse tanti anni fa argutamente un cappuccino davanti al plotone schierato delle sue grifagne fedeli, quando le pie donne, e pur anco i devoti, vanno nel confessionale, tendono a confessare i peccati degli altri e non i propri. Quelli della vicina o della cognata, del collega d’ufficio o del meccanico, non i propri che sono presentati come motivata reazione, qualche volta un tantinello esagerata, alle altrui offese. E comunque, signori miei, un motivo valido per tradire il marito (e, va da sé, la moglie) lo si trova sempre: o è un arrogante bastardo o è mite in modo snervante, in tutti i casi se lo merita.

Quello che noi tutti siamo certi di non meritare sono i castighi e neppure gli ammonimenti. Ed i cattolici sono anche più permalosi degli altri, avendo il complesso di dover riscattare secoli di oppressione religiosa o di doversi rifare della stessa.

Prendiamo la Bibbia, non con e per protervia o leggerezza, ma nella fiducia che dalle profondità e dalle altezze del pensiero teologico, il racconto biblico discende come il racconto per bambini, la fiaba primordiale, l’abaco che ci spiega la difficile matematica dell’esistere.

Ed allora incontriamo Giona, il profeta che non si fida di Dio, sembrandogli troppo corrivo nel perdonare, e così va malvolentieri ad avvertire gli abitanti di Ninive sugli incombenti castighi. Sta di fatto che gli abitanti, dal re all’ultimo dei muli, si coprono di sacco e digiunano. Il Signore si impietosisce perché “si erano convertiti dalla loro condotta malvagia” e li risparmia esasperando il suo profeta. Il re di Ninive aveva infatti detto: “Chi sa che Dio non cambi, si impietosisca, deponga il suo ardente sdegno“.  (Così anche David si era umiliato nella speranza, vana, di ottenere da Dio la vita del suo bambino).

Anche il fratello del figliol prodigo ha delle rimostranze nei confronti del padre che fa uccidere il vitello grasso per festeggiare il ritorno dello scriteriato che ha spappolato il suo patrimonio; ma il padre gli ricorda che viene festeggiato “perché era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. Anche qui il figlio riconosce d’aver mancato gravemente: “Ho peccato gravemente contro il cielo e contro te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio” (Lc 15,11).

Come loro anche Marmeladov ha coscienza di essere inescusabile.

Perché a noi fa tanta pena Marmeladov, ma il buon uomo, oltre a causare la morte della moglie, tra stenti ed angosce, lascia che la sua stessa figlia, Sonja, si prostituisca per mantenere loro tutti, e, per quel che potrebbe dipendere da lui, anche i più piccoli hanno il destino già segnato.

Il punto è che, come diceva Chesterton in un racconto di Padre Brown, la gente, il mondo è pronto a perdonare i peccati che non ritiene tali: l’adulterio, perché è un’eccentricità (mica poi tanto), il furto o la truffa, quando non ne siamo vittime noi, la maldicenza, perché è così divertente, l’invidia e giù a rotta di collo. Sant’Agostino notava, nelle Confessioni, che alcuni suoi colleghi erano proclivi a passar sopra a qualsiasi nefandezza ma non ad un errore di costrutto sintattico o retorico. Noi che veniamo molti secoli dopo, e quindi siamo molto più civili, possiamo perdonare se donne che nostro marito frequenti siti  pedopornografici ma non che porti il calzino corto; se uomini, che la compagna faccia sesso online ma non che vada in giro con l’ascella tropicale! Non è un’esagerazione, badate. 

Qualche volta ho l’impressione che, se un Adamo ed un’Eva dei nostri giorni incontrassero il Signore Dio che passeggiasse nel giardino “alla brezza del giorno” (Gen.3, 8), ai suoi rimproveri obietterebbero con un “Ma quante storie! Che sarà mai!”, perché questo è di fatto il nostro atteggiamento, siamo giunti ad una sindacalizzazione dei nostri rapporti con Dio, ed è l’aspetto profondamente malato della questione. Quanto di questa malattia sia dovuto al Concilio Vaticano II o per lo meno all’illusione che, come un’entusiastica Marsigliese, lo ha accompagnato già dagli inizi, e quanto all’ineluttabile trasformazione del mondo intorno (ma nessuna ineluttabilità è senza colpa), non saprei dirlo, ma certo i frutti avvelenati sono ormai sul tavolo.

È tutto un lamentoso lagnarsi: perché Dio permette questo, perché non impedisce quello? Francamente non si capisce perché Dio possa permettere la profanazione di bambini nelle discariche o nei lupanari del terzo mondo (per tacere delle une e degli altri nei nostri anfratti di male), malattie e schiavitù e però non possa, anzi non debba intervenire nelle nostre faccende di cuore, ad esempio. Quante volte si sente la fraschetta di turno protestare il proprio diritto a disfare un’altrui unione in nome del love is love e della sincerità dei propri sentimenti, che probabilmente, sempre con la massima sincerità, muteranno direzione nel breve volger d’un mattino (non è che sia solo una pessima abitudine femminile, è che all’uomo, grezzo, manco viene in mente di giustificarsi). Ma la fanciulla non ci pensa a dar la colpa a Dio, è certa che sia di quelli che equivocano il Suo messaggio.  È insomma il vaso che dice al vasaio come gli piacerebbe essere fatto (Romani 9, 24).

Intendiamoci: non è che a me come vengano condotte le cose da lassù piaccia molto, anche perché cerco di proporre spesso, con eleganza e discrezione, linee d’azione, mi pare, nitide e di semplice efficacia, e non mi capacito del perché vengano regolarmente disattese. E a ben pensarci, è dai tempi di Adamo ed Eva che noi cerchiamo sempre di “scantonare” e fare a modo nostro, portare avanti il nostro gioco: quando veniamo beccati, ci comportiamo esattamente come i nostri progenitori, dando a vedere un imbarazzo per qualche sorta di fraintendimento (è stata la donna, è stato il serpente, non volevamo).

Ma non sembra che il Signore abbia considerato una ragazzata l’azione dei due e, pur facendogli tuniche di pelli, li ha spediti nel mondo.

Noi non chiediamo perdono o misericordia, pretendiamo amnistie e condoni a ripetizione, in nome di un più “alto” senso della dignità umana. È un po’ la parabola del fariseo e del pubblicano all’incontrario: il fariseo di oggi è il peccatore che fa outing di tutte le sue bassezze e, fiero di questo, della sua pretesa sincerità, se ne vanta davanti all’altare. Non pensa di meritare dei castighi, non pensa neppure che, se la nostra condizione umana non dipendesse da un castigo originario, dovremmo convenire di essere in balia di un Dio sadico. A che pro questa ingiustizia?

Per nostra fortuna ci sono gli abitanti di Ninive, il debosciato figliol prodigo, lo sciagurato Marmeladov che sanno di non aver il minimo diritto ad essere perdonati e possono andarsene giustificati. 

 

 

 

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