di Luca Del Pozzo
Autodeterminazione. A ben vedere il dibattito infuocato di questi giorni sul Ddl Zan ruota tutto attorno a questa parola. Parola a volta urlata, altre sussurrata, altre ancora taciuta. Ma è li che vanno a infrangersi tutti i distinguo e i però e le spiegazioni.
Al di là e oltre la formulazione del singolo articolo, ciò che dovrebbe far riflettere tutti e auspicabilmente suggerire una pausa di riflessione, è che forse mai come in questo frangente, questa legge tanto controversa di cui si sta parlando, è stato teorizzato fino ad essere messo nero su bianco un principio tanto semplice quanto dalle conseguenze potenzialmente devastanti: l’abolizione del principio di realtà e la sua sostituzione con il principio di percezione.
Sta tutto qui il limite, per usare un eufemismo, del Ddl Zan. Il fatto cioè che la realtà cessa di essere un qualcosa di oggettivo, di esterno al soggetto e che lo precede, per diventare pura materia grezza che il soggetto può plasmare a suo piacimento.
E’ fin troppo facile scorgere dietro questa impostazione il disegno di una volontà prometeica, una volontà di potenza che fa dell’uomo l’unico artefice della propria vita.
Per dare la misura della gravità della posta in gioco, basti pensare che l’affermazione del principio di percezione e tutti i suoi derivati, corrisponde a ciò che nella tradizione cattolica da S.Agostino in poi è stato identificato niente meno che come l’essenza stessa del peccato originale: l’uomo che si fa dio di se stesso decidendo lui ciò che è bene e ciò che è male.
Da qui la domanda: vogliamo davvero che la società, il mondo che lasciamo ai nostri figli si regga su principi morali e culturali che sono ultimamente espressione di un atto di superbia? Possibile che gli sfaceli del razionalismo culminati negli orrori del XX secolo non abbiano insegnato nulla? (Per inciso: razionalismo di origine cartesiana, di cui la versione contemporanea – “sono ciò che penso” – è la naturale evoluzione) E lì si è trattato di visioni politiche, ora se possibile è ancora peggio visto che è in gioco la grammatica della vita.
Possibile che nessuno (o quasi) alzi la voce per denunciare che se si ammette che ciascun individuo è un assoluto, cioè sciolto (ab-solutus) da ogni legame in quanto insindacabile artefice della proprio destino, questo porterà a legittimare l’anarchia morale (senza alcuna declinazione moralisticheggiante del termine, non è questo il punto) ossia l’affermazione di una società senza un principio, dove esisteranno tante identità quante saranno le “percezioni di sé’” sottostanti? Col risultato che si imporranno solo i più forti?
Prima ancora che azzuffarsi su questo o quell’articolo o addentrarsi in analisi tecnico-giuridiche della legge, utili per carità ci mancherebbe, ciò di cui si avverte l’urgenza è una discussione laica, aperta e seria sulla portata culturale di quanto sta accadendo e che riguarda allo stesso modo, pur da diverse angolazioni, eutanasia, aborto, gender, fecondazione assistita, eccetera eccetera. Tutte questioni che riconducono al punto da cui siamo partiti: cosa vogliamo intendere, esattamente, quando parliamo di autodeterminazione?
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