di Mattia Spanò
Leggo con un sussulto di gratitudine la breve nota sull’Eucarestia del professor Leonardo Lugaresi. Se ci credessero, se credessimo nella Presenza Reale di Cristo, scrive Lugaresi, ci terremmo a distanza da brutture selvagge come la messa in bicicletta o celebrata su un materassino al mare.
Vorrei esprimere qualche riflessione personale sulla nota e provare a tirare qualche conseguenza dal ragionamento di Lugaresi, perché il tema eucaristico è il centro del nostro tempo, come cattolici e anche come laici.
Una constatazione preliminare. Non esiste né è mai esistita religione al mondo che affermi, permetta e renda accessibile a chiunque – dopo un’adeguata e indispensabile preparazione, ma senza discriminazioni preventive – la possibilità che Dio entri in comunione con l’uomo, ovvero che la Sua carne e il Suo sangue si fondano con quelli della creatura, e questo fatto si possa ripetere nel quotidiano. Scanso equivoci, si tratta di iniziativa divina, non evocazione umana.
Non dovrebbe esistere nessun atto più ambito nella vita di un credente che ricevere il Corpo di Dio, e in fondo nella vita di chiunque.
Per un mistero paradossale, Dio restituisce all’uomo ciò che il serpente aveva tolto – se mangerete, diventerete come Lui. In un certo senso, il diavolo propone un’eucarestia invertita e anticipata rispetto a quella autentica, che viene da Dio, che è Dio. Questo determina la perdita della Grazia, la morte, e fa scaturire il tempo umano come attesa della morte, da spendere in vari modi, per lo più tremendamente vani.
Quello che Cristo offre nell’Eucarestia è un ritorno alla comunione con Dio, un atto di riparazione del peccato originale tramite un sacrificio incruento: a quello cruento ha pensato Lui. È una riparazione alla tentazione diabolica, e soprattutto al cedimento umano ad essa. Una ricomposizione ordinata del caos.
C’è però un dettaglio importante nel racconto biblico: il serpente non propone di diventare più di Dio, né di sostituirlo. Diventerete come Lui, promette, conoscendo il bene e il male. Sarete associati a lui, promette il serpente, la qual cosa effettivamente avviene nell’Eucarestia.
L’autore biblico non ritiene di specificare cosa sia il male (i contemporanei ne avevano contezza, possiamo dire) tuttavia, coerentemente al testo, dobbiamo postulare che nella condizione edenica l’uomo e la donna non avessero la minima idea di cosa fosse il male. Nei fatti non ne avevano alcuna esperienza.
Il serpente lo chiama “male”, ma alle loro orecchie l’espressione deve risuonare come “altro”. Un “altro ignoto”: Dio vi nasconde qualcosa. La verità non è ciò che vedi, ma è altro. A suo modo, il serpente è onesto e mantiene la promessa: davvero dopo il bene abbiamo conosciuto il male, e il suo portato di dolore e morte. La verità dell’uomo perso nel proprio consiglio è che soffre e infine muore.
Il carattere fondativo della modernità si manifesta allora come il rilancio dell’offerta diabolica: noi non diventiamo come Dio, ma ne prendiamo il posto. Noi siamo Dio, e non esiste altro Dio all’infuori di noi.
Prendiamo a questo punto per buona l’ipotesi fondante del laicismo anticristico: l’uomo, finalmente libero da lacci e lacciuoli imposti dalla Chiesa cattolica – come se altre chiese o altre religioni, financo i democratici regimi nostrani, non ne imponessero – l’uomo liberato, evoluto, progredito, prende il posto di Dio. La conoscenza deriverebbe esattamente dal separarsi dal mistero divino.
Naturalmente l’attribuzione dei successi tecnologici, scientifici e l’aumento vertiginoso della qualità della vita (almeno in Occidente) si può ascrivere a mille altre cause, ma prendiamo per buona questa: liberati dai comandamenti divini, abbiamo scoperto altro. E questo altro, se non è buono, è comodo e funzionale. Almeno sulle prime.
Ho sentito illustri cattolici teorizzare “l’incredibilità” dell’Eucarestia. Il calembour semantico si gioca sulla differenza fra credere e sapere. Se so che quello è un pezzo di pane azzimo, non mi serve credere che sia Nostro Signore. È ciò che so che mi ha procurato l’aria condizionata, l’iPhone e le vacanze a Formentera, non ciò che credo.
Prendiamo per buono anche questo, e tiriamo le fila. Gli uomini, e in particolare i sacerdoti, a quanto pare non hanno bisogno di credere, ma di sapere. Ciò che so, mi salva: si tratta fuor di metafora di introdurlo nel corpo, perché il carattere costitutivo della spiritualità occidentale è che essa è corporale. Che sia una mela, un’ostia, un vaccino o un chip dipende dai tempi occorrenti. La funzione è la stessa: svilisco l’Eucarestia (una credenza) e inoculo un vaccino (una conoscenza), o un microchip per pagare le uova senza maneggiare vil danaro. Uno spirito non può abitare due corpi. Bisogna che uno venga distrutto.
Il fatto di credere torna comunque dopo, in forma succedanea al sapere scientifico. Torna perché il sapere fa acqua da tutte le parti. Che il vaccino non funzioni non ha importanza, perché credo che lo farà la prossima volta. Fai soltanto un altro buco, e io sarò salvato. È solo un esempio cogente (altro giochino di parole, quello fra salvezza e salute). Potrei farne mille altri.
Sta di fatto che la Chiesa per prima ha ceduto a questo genere di lusinga, ed anzi l’ha dogmatizzata: siate solidali, salvate gli altri vaccinandovi! Proteggete gli altri da voi – che siete il male, mentre l’altro è innocente – con le mascherine! Salvare da cosa, di grazia? Proteggere quale innocente da noi stessi? Non lo sanno. Non lo sappiamo. Quindi non lo credono, non lo crediamo.
È dell’altro ieri una notizia interessante: in California e altri stati americani è stato legalizzato il compostaggio dei cadaveri. Dal momento che il corpo, fatto di materia, è caduco, e in ultima analisi contraddice il dogma della cono-scienza incorruttibile, lo elimino reintroducendolo in qualcosa di vitale – concime, nella sostanza.
Sul versante del software, scienziati profumatamente pagati lavorano alla possibilità tecnica di caricare il cogito cartesiano su un hard-disk, separandolo dal rifiuto organico. Terzo inganno lessicale: la confusione artatamente introdotta fra coscienza e conoscenza. Nell’etimo, esse non sono soltanto separate, ma per certi versi opposte: la coscienza riguarda la consapevolezza di sé, la conoscenza riguarda ciò che non è il sé (la natura, potremmo dire in senso lucreziano).
Il cuore del problema è in che senso intendiamo la divinizzazione dell’uomo, per usare un’espressione di don Divo Barsotti fra gli altri: come l’iniziativa di Dio che si “incarna” in ognuno di noi, o piuttosto come il nostro farci dei?
In questo senso, la “questione eucaristica”, chiamiamola così per semplicità, è assolutamente centrale non solo per i fedeli, ma per qualunque cittadino di una città spirituale – che sia quella divina o diabolica secondo la lezione agostiniana, dipende da questo – che pretenda di esistere sul piano sostanziale e politico, postulando una “cosa pubblica”, una “giustizia”, un “diritto”, una “economia”.
In effetti ciò cui stiamo assistendo non è l’espressione più alta di un potere umano, nuovo, terribile e irreversibile, ma al contrario al suo disfacimento. Le funzioni divine assunte dal potere politico e amministrativo si stanno letteralmente traducendo in morte, dolore e distruzione: la Ue-carestia. Per l’ennesima volta, stiamo svelando cosa c’è oltre Dio: dolore e morte. Se Dio non si rivela, non spetta a noi farlo al posto Suo. Siamo persuasi del contrario.
Piaccia o meno, la vocazione storica dell’Occidente è cristocentrica. Non soltanto rispetto al retaggio ebraico – “Non crediate io sia venuto ad abolire la legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma per dare compimento” (Mt 5, 17-19) – ma per estensione a quello greco-romano.
Perché questo ruolo sia stato riservato all’Occidente e non ad altre civiltà non meno degne (quella cinese, quella indiana, quella giapponese per fare qualche esempio) è una domanda di lana caprina. L’Occidente sul piano mistico e mitico nasce come relazione diretta, fisica, col divino.
Nell’Ueropa Uecaristica, il dolore, la privazione sono diventate condizioni per la felicità e la realizzazione di sé, al punto che tal Francesco Piccolo, colto scrittore, teorizza l’imbozzolarsi nelle coperte, cuocere la pasta in acqua fredda, sgobbare come muli per pagare le bollette e altri stenti come condizioni necessarie per una nuova e migliore felicità.
Il fatto che nell’Eucarestia (l’originale inimitabile) non vi sia alcuna promessa o garanzia di felicità, ma solo salvezza nella comunione col Dio che ha vinto la morte, ha paradossalmente mosso l’uomo cristiano in direzione del bene, del buono, persino del comfort in questa vita. È la verità di una promessa a scatenare l’operosità hic et nunc che occorre al suo compimento: ciò che sarà, lo voglio anche oggi, quanto meno per approssimazione.
Il branco di scimmie avvelenatrici uecaristiche (e non solo) non trova di meglio che cambiare nome all’immondizia, chiamando il tanfo di vomito freddo “profumo”.
L’aborto diventa “diritto alla salute riproduttiva”, la guerra “missione di pace”, l’eutanasia “dignità”, lo stupro dei bambini “parafilia” (i bambini hanno diritto a farsi stuprare, basta il consenso, ha detto una ministra spagnola), bucherellarsi con un farmaco sperimentale un “atto d’amore”, la crisi energetica, la carestia, il depopolamento “lotta al cambiamento climatico”. Prosit, egregi babbuini.
Questa prospettiva laica, civile e politica che ho tentato di tracciare circa l’Eucarestia non è, com’è normale che sia, condivisibile da tutti. Ci mancherebbe altro, sia mai.
Ma se la Chiesa e i suoi sacerdoti fra una pizza mangiata coi poveri, una consacrazione balneare o ciclistica, una benedizione alle coppie gay e un invito a fare quello che dice il potere, facesse mente locale circa ciò che l’Eucarestia veramente è – non perché ci credono ma perché l’hanno letto dalla parrucchiera, ergo da qualche parte sta scritto – quanto meno dovremmo farci i conti.
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