Domenica XXV del Tempo Ordinario (Anno A)
(Is 55, 6-9; Sal 144; Fil 1, 20c-24.27; Mt 20, 1-16)
di Alberto Strumia
Di fronte alle letture di questa domenica viene voglia di arrendersi davanti alla “trascendenza” di Dio, che può e deve solo essere “riconosciuta” con la “ragione” insieme alla “fede”.
Tutto ciò che riguarda Dio ci si presenta come “infinitamente più grande” di quanto la nostra immaginazione possa rappresentarsi.
Dio dice di sé, infatti, nella prima lettura, con le parole prestate al profeta Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri». È una sintesi semplice, ma potentemente efficace per dire che Dio è “trascendente”, non riducibile a nessun altro essere creato: né ad un corpo materiale, ma neppure ad un ente puramente spirituale, ma finito, come un angelo o la nostra anima, intelligente e libera. Eppure ogni creatura ha una certa partecipazione e somiglianza con Lui, ma in un modo che è limitato, finito e circoscritto “qualitativamente” e non appena quantitativamente. Al punto tale che Dio può esprimere nel nostro linguaggio limitato, delle verità intorno a se stesso, così da comunicarcele, attraverso la Rivelazione.
Non ci basta
– la fantasia umana, la nostra capacità di ragionare, che pure coglie tanti aspetti veri di Dio, essendo noi esseri umani, fatti a Sua immagine e somiglianza («E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”», Gen 1,26);
– e neppure una certa comprensione di quanto Dio ci ha “rivelato”, attraverso la Scrittura, la Tradizione della Chiesa, la testimonianza dei santi
per farci un’idea veramente adeguata di ciò che il Signore ha preparato per noi, per farci prendere parte dalla Sua Gloria, così che essa riempia il nostro essere e renda splendidamente gloriosi anche noi. L’Esperienza della beatitudine nell’Eternità, per quanto cerchiamo di immaginarcela, sarà sempre una grande sorpresa, qualcosa di molto più bello e grande di come possiamo, per ora, figurarcela.
Si direbbe che è con questo stato d’animo che san Paolo, nella seconda lettura, arriva a dire: «Cristo sarà glorificato nel mio corpo», così che la Sua Gloria divenga, in qualche modo anche la mia, così che «per me il vivere è Cristo».
Scrivendo ai Galati era arrivato a dire, con parole simili, e ancora più azzardate: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). È il culmine di un’esperienza mistica, alla quale è stato permesso di intravedere qualcosa di ciò che sarà donato per sempre e chi incomincia fino da ora la strada della fede, dell’affidamento a Dio attraverso Cristo!
La vita qui sulla terra a Paolo, ormai, non basta più: vuole la “totalità” della vita eterna con Cristo, per il quale ha speso tutte le sue energie umane. Per questo arriva a dire, con parole che a noi appaiono perfino paradossali: «Per me vivere è Cristo e morire un guadagno».
È il guadagno di giungere irreversibilmente a stare con Dio, per il quale siamo fatti, per il quale viviamo, ci muoviamo e siamo (cfr., At 17,28).
Qualcosa di simile l’abbiamo vista anche noi nei nostri grandi “maestri di vita”, nel loro modo di concentrarsi, quasi vedendo oltre la terra, quando negli ultimi tempi della loro esistenza con noi, ci parlavano di Cristo, della Vergine Maria e dei santi, quasi come fossero già con loro, almeno qualche passo più vicini a loro, di noi.
Arrivati ad un certo punto, sembra dirci san Paolo, la vita sulla terra, che pure ci ha dato tanto, non ci basta più e il bisogno di stare con Dio, vedendolo direttamente con l’intelligenza e tuffandoci nell’essere voluti e amati da Lui, con la volontà, diviene indispensabile, al punto di non volerne più fare a meno: «Voglio sciogliermi dalla terra per essere con Cristo (cupio dissolvi et esse cum Cristo)» (cfr. la seconda lettura).
Ma aggiunge, mosso dalla vera carità verso i suoi, che se è utile a voi, alla Chiesa «è più necessario che io rimanga» qui ancora, e sono pronto ad aspettare per un altro po’, il passaggio all’Eternità con Dio, che è pronta a ricevermi e farmi carico della fatica di un ulteriore lavoro (non recuso laborem, secondo l’espressione attribuita a san Martino di Tours).
Il Vangelo dettaglia la logica di questa “durata” del tempo del lavoro nella vigna del Signore qui sulla terra che, ad alcuni degli operai è richiesta in una maggiore entità, come a quelli che vengono messi all’opera nelle prime ore del giorno.
Del resto, di fronte all’Eternità, infinita, poco conta l’estensione del tempo della vita sulla terra, della quale viene assicurato che, in ogni caso, nulla andrà perduto («nemmeno un capello del vostro capo», Lc 21,18).
Giustamente il versetto dell’Alleluia mette sulle nostre labbra la preghiera che domanda al Signore di entrare in questa “logica dell’infinito”, della trascendenza di Dio, della sua Sapienza, del Suo Bene, così che ci si fidi fino in fondo di Lui: «Apri, Signore, il nostro cuore»!
Così da essere in grado di fare nostra l’indicazione di san Paolo: «Comportatevi, dunque, in modo degno del Vangelo di Cristo».
Maria, madre del Signore ci guida, istruisce e accompagna nel cammino della Verità della Vita, mostrandoci Cristo, suo Figlio e nostro Dio Salvatore, nel quale l’infinito trascendente ha voluto unire in sé la nostra natura umana finita, per renderla ancora più a Sua immagine e somiglianza.
Bologna, 24 settembre 2023
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