Amy Coney Barrett è un giudice della Corte d'Appello degli Stati Uniti per il 7° Circuito e professore di diritto all'Università di Notre Dame. (CNS photo/Matt Cashore, University of Notre Dame via Reuters)
Amy Coney Barrett è un giudice della Corte d’Appello degli Stati Uniti per il 7° Circuito e professore di diritto all’Università di Notre Dame. (CNS photo/Matt Cashore, University of Notre Dame via Reuters)

 

 

di Luca Del Pozzo

 

Davvero surreale, ma allo stesso tempo rivelatore del crescente clima da caccia alle streghe che caratterizza il totalitarismo politicamente corretto, la seduta di martedì scorso al Senato americano – di cui ha dato conto ieri da par suo Paola Peduzzi su queste colonne – sulla proposta di nomina della cattolica Amy Barrett a giudice della Corte suprema. E non una, ma due volte surreale. Primo, perché in uno dei luoghi simbolo della più matura democrazia occidentale dove il free speech dovrebbe essere di casa, la Barrett è stata costretta a scusarsi in men che non si dica per aver usato l’espressione “preferenze sessuali” anziché “orientamenti sessuali”. Motivo? Il fatto che il primo termine supporrebbe una scelta, che in quanto tale si può cambiare se opportunamente aiutati, mentre il secondo, evidentemente più consono ai canoni della neolingua politically correct, sta a indicare – come ricordato dalla senatrice delle Hawaii Mazie Hirono – “una parte cruciale dell’identità di una persona”. Ma quanto accaduto è surreale anche, e soprattutto, per un altro motivo: il fatto cioè che è proprio la teoria gender cara alla galassia gay a dire che ciascuno è libero di scegliere il proprio genere a prescindere dal dato biologico. O ci siamo persi qualcosa? Se è così delle due l’una: o il genere sessuale è un dato di natura, e allora la teoria del gender è una balla; oppure hanno ragione gli ideologi del gender e ognuno è libero di “farsi” il proprio genere/orientamento, ma allora la smettessero di parlare di tendenze e orientamenti innati e le scuse le si facciano alla Barrett. E a proposito di scuse: qualcuno spieghi al sempre severo (soprattutto, ma sarà un caso, quando c’è di mezzo un cattolico) censore del dogma Michele Serra, che farsi accompagnare dai propri figli, come ha fatto la Barrett presentandosi con i suoi magnifici sette all’audizione in Senato, non necessariamente significa un “volerli sbandierare come prova del proprio valore e della propria virtù”. Né tanto meno si è trattato di un “evidente elemento di propaganda politica per una antiabortista convinta” (e quindi?), che oltretutto dimostrerebbe la “non sottile intolleranza nei confronti di tutto ciò che non è una bella famiglia americana”. Ecco qua, semplice semplice. Tacendo dell’assordante silenzio delle femministe di ieri e di oggi (ma l’utero non era vostro e lo gestivate voi? Non vale più se una fa tanti figli?), se tanto mi dà tanto con lo stesso principio quando a Sanremo qualche anno fa fu invitata sul palco dell’Ariston una famiglia che di figli ne aveva sedici, cosa mai avremmo dovuto fare? Chiedere alla Rai di cacciare su due piedi il direttore del Festival? Convocare d’urgenza la commissione di vigilanza? Suvvia Serra, non sarà che tanto arcigno giudizio non risenta piuttosto della sua (legittima, per carità) avversione per Trump e per tutto ciò che rappresenta? Avrebbe detto le stesse cose se la Barrett l’avesse nominata Obama? Spiace dirlo, ma a leggere certi commenti è forte l’impressione che nascano da pregiudizi non meno dogmatici dei presunti dogmi che si vorrebbe stigmatizzare. Con una differenza però, tipica di un certo modo manicheo di vedere la realtà: che certi dogmi, siccome laici, vanno bene; quelli religiosi, no. Viva la tolleranza (occhio però ai sensi unici).

 

 

(Lettera inviata e pubblicata su Il Foglio di ieri)

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