Perché gli attivisti transgender rifiutano così fortemente il concetto di autoginefilia, in cui un uomo vuole essere donna a causa di un attaccamento erotico all’idea di se stesso come donna? La chiusura dell’indagine scientifica per pressione politica impedisce il progresso oggettivo della scienza. Inoltre, negare la validità della teoria dell’autoginefilia può danneggiare i pazienti disforici di genere negando loro l’accesso a terapie che potrebbero aiutarli a superare i loro problemi specifici.

Un articolo di Jane Robbins, pubblicato su Public Siscourse, nella traduzione di Elisa Brighenti. 

 

Persona triste

 

Perché gli attivisti transgender rifiutano così fortemente il concetto di autoginefilia, per cui un uomo vuole essere donna a causa di un attaccamento erotico all’idea di se stesso come donna? La compromissione dell’indagine scientifica, per mezzo di pressioni politiche, impedisce il progresso oggettivo della scienza. Inoltre, negare la validità della teoria dell’autoginefilia può danneggiare i pazienti disforici di genere, impedendo loro l’accesso alle terapie che potrebbero aiutarli a superare i loro problemi specifici

Gli attivisti transgender spesso sostengono che gli uomini che desiderano presentarsi come donne (da maschio a femmina o transessuali MtF) hanno un’identità di genere femminile, probabilmente innata, che è in conflitto con il loro sesso biologico. Questi uomini, sostengono, sono “donne intrappolate in corpi maschili” e sono quindi i candidati idonei per il cosiddetto “trattamento di affermazione di genere”: farmaci, ormoni e interventi chirurgici che non cambieranno il loro sesso ma li aiuteranno ad imitare le donne in apparenza. Questo argomento è stato ritenuto il “racconto dell’identità femminile”.

Gli attivisti transgender considerano questa teoria come un dato scientifico. Ma la narrazione dell’identità femminile è in conflitto con un’altra teoria che gode di un supporto probatorio molto più evidente, che spiega una grande quantità di casi di disforia di genere MtF, e che offre speranza per un trattamento psicologico.

All’inizio degli anni ’90, il dottor Ray Blanchard ha coniato il termine “autoginefilia” per indicare la condizione di un uomo che mostra una “propensione ad essere eroticamente eccitato dal pensiero o dall’immagine di se stesso come donna”. Il Dr. Blanchard è il capo in pensione dei Servizi di Sessuologia Clinica presso il Centro per le Dipendenze e la Salute Mentale di Toronto, in Canada. Clinico di primo piano a livello internazionale, che aiuta i pazienti con vari disturbi legati all’identità di genere e all’orientamento sessuale, nonché collaboratore alle sezioni pertinenti della quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (il DSM-5), Blanchard ha decenni di esperienza nel settore.

L’autoginefilia è distinta dall’omosessualità; infatti, gli autoginefili spesso interagiscono sessualmente con le donne e possono presentarsi come lesbiche dopo la “transizione” ad imitazione del sesso femminile. La caratteristica distintiva è l’attaccamento erotico del paziente non a un’altra persona, maschile o femminile, ma piuttosto a un’idea interiore: l’idea di sè come donna. Tra i molti casi di studio professionale, Blanchard riferisce di pazienti  sessualmente eccitati da manifestazioni corporee femminili come le mestruazioni.

Questo sembrerebbe essere il caso di Jonathan/Jessica Yaniv, un uomo canadese – che a più riprese ha sostenuto di essere una donna – che si interroga su come “intrattenere” le giovani ragazze nei bagni o negli spogliatoi, chiedendo loro informazioni sugli assorbenti e altri prodotti per l’igiene femminile. Questa è la stessa persona che chiede, nel rispetto della legge, che le personale dei saloni femminili si depilino i genitali, e che dimostra una inquietante ossessione per le funzioni corporee femminili.

Una maggiore comprensione della condizione può essere ricavata dai feed transgender/cross-dressing di Twitter. I tweeters maschi si scambiano messaggi ridicoli sulle loro fantasie sessuali, presentandosi tutti come donne; discutono i pro e i contro di indossare il reggiseno e come assumere  ormoni per simulare la sindrome premestruale, cosa che le donne biologiche non fanno mai. Si emozionano all’idea di essere tra le donne e di imitare la loro identità femminile. Come osserva la commentatrice femminista e lesbica Lara Adams-Miller, non si tratta di un problema di identità di genere, ma di fantasie sessuali, in cui le donne vere appaiono solo come oggetti di scena.

Blanchard spiega inoltre che quasi tutta la disforia di genere MtF per adulti risulta da, o è accompagnata da, autoginefilia o omosessualità. In ogni caso, egli trae questa conclusione: “Il transessualismo e le forme più lievi di disforia di genere sono tipi di disturbi mentali, che possono lasciare l’individuo con funzionalità medie o addirittura superiori alla media in aree di vita non correlate”.

Altri medici concordano con le teorie di Blanchard sulla disforia di genere della MtF e le hanno ulteriormente esplorate. Per esempio, il professore di psicologia Dr. Michael Bailey della Northwestern University ha scritto molto sull’autoginefilia e la sua relazione con la disforia di genere, concludendo che le prove a sostegno del lavoro di Blanchard superano di gran lunga quella della narrazione dell’identità femminile.

Ma gli attivisti transgender attaccano ferocemente chiunque suggerisca che individui disforici di genere potrebbero in realtà non avere il cervello dell’altro sesso, o che soffrano di qualsiasi tipo di disordine. Twitter ha incoraggiato i loro interventi opponendosi alla valutazione clinica di Blanchard definendola “condotta odiosa”.  Anche se sia Blanchard che Bailey credono che alcuni pazienti adulti possano beneficiare della cosiddetta “terapia di affermazione di genere” (GAT), forse anche con interventi chirurgici, la loro posizione secondo cui la disforia di genere è spesso associata all’autoginefilia li esclude dalla cortese compagnia della compagine dei radicali.

Perché gli attivisti transgender rifiutano così fortemente il concetto di autoginefilia? Bailey suggerisce diverse possibilità. Gli individui disforici di genere possono temere che venga loro negata la “riassegnazione sessuale”, se il loro motivo è la soddisfazione erotica piuttosto che la profonda certezza di essere in realtà delle donne. Temono di essere considerati sessualmente deviati. Oppure possono credere che la narrazione dell'”identità femminile”, anche se non documentata, sarà più accettabile per il pubblico e quindi potrà spianare la strada ad altri individui disforici ad essere accettati per il GAT.

Anche i clinici possono negare l’autoginefilia e accettare invece la narrazione dell’identità femminile. Come osserva Bailey, possono esitare a smentire le loro pazienti, che insistono sul fatto di essere donne con un cervello femminile e di non essere attratte eroticamente dall’idea di se stesse come donne. Possono avere “maggiore rassicurazione dall’idea della riassegnazione del sesso per motivi legati al genere piuttosto che all’erotismo”. E possono anche credere che “la narrazione dell’identità femminile possa essere un beneficio per la salute psicologica e per le relazioni sociali delle loro pazienti, anche se non corrisponde alla vera eziologia del loro desiderio di riassegnazione sessuale”.

Ebbene, ci si potrebbe chiedere, e allora? Se un uomo fosse più felice di imitare una donna, per qualsiasi motivo, perché non stare al gioco (e, come potrebbero notare i clinici del GAT, guadagnare anche economicamente nel processo)? Da un lato, come sottolinea Bailey, la limitazione dell’indagine scientifica per pressione politica impedisce il progresso oggettivo della scienza. Inoltre, negare la validità della teoria dell’autoginefilia può danneggiare i pazienti disforici di genere, impedendo loro l’accesso a terapie che potrebbero aiutarli a superare i loro problemi specifici. “I transessuali omosessuali e non omosessuali [autogynephilic] MtF hanno problemi di vita e obiettivi diversi”, dice Bailey, “e la persistenza della convinzione che siano simili impedisce lo sviluppo di interventi clinici” che potrebbero andare a beneficio dei singoli pazienti.

Bailey sostiene anche che l’ostilità che si riflette su chiunque suggerisca l’esistenza di autoginefilia-ostilità che, egli crede, proviene principalmente da “autoginefili in negazione” – “rende molto meno probabile che [autoginefili] possono trovare risorse che [potrebbero] aiutarli a capire se stessi, li costringe nelle loro idee, invalida il loro concetto di sé e alimenta  sentimenti di vergogna”. Questi uomini non hanno chiesto di trovarsi in questa condizione – le cui radici sono profonde e complesse – tuttavia, la loro situazione può essere migliorata con una terapia adeguata. Ma, perché questo si realizzi, la società deve riconoscere la condizione per quello  che essa è, e offrire un aiuto concreto, piuttosto che sostenere istintivamente che gli spiacevoli desideri di chi soffre sono perfettamente normali.

Oltre a permettere il miglioramento delle terapie per i pazienti che soffrono, tuttavia, riconoscere l’autoginefilia dovrebbe guidare la società verso l’attuazione di politiche appropriate. Questa condizione illustra il ragionevole motivo  (al di là della protezione della privacy e della modestia delle donne) per cui gli uomini biologici non dovrebbero essere ammessi negli spazi privati riservati alle donne, come i bagni o gli spogliatoi. Come dimostrato dal caso Yaniv, non tutti i transessuali MtF sono individui innocui che si credono donne ed è quindi imbarazzante per loro assumere un comportamento  fortemente personale nei confronti degli uomini. Invece, potrebbero soffrire di una patologia che li spinge a minacciare la privacy di donne e ragazze in modi ancora più pericolosi della loro semplice presenza.

Jessica Yaniv, nato Jonathan Yaniv

Jessica Yaniv, nato Jonathan Yaniv (foto da Twitter)

 

Come conclude Adams-Miller esaminando i feed di Twitter, gli autogynephiles “vogliono essere dall’altra parte della stanza, oltre i confini che separano uomini e donne”. Una società che permette – e addirittura celebra – l’eliminazione di tali confini è una società che non rispetta veramente le donne.

Per aiutare gli individui che soffrono di disforia di genere, e per elaborare le migliori politiche per affrontare la patologia, dobbiamo conoscere le cause. Abbiamo bisogno di maggiori informazioni, non di conclusioni politicamente corrette che sfidano le prove scientifiche. Ancora più importante, abbiamo bisogno di una corretta comprensione di ciò che significa essere sani. Sacrificare donne e ragazze alle fantasie erotiche di individui con malattie mentali non dovrebbe essere considerata un’opzione.

 

 

Jane Robbins, laureata alla Clemson University e alla Harvard Law School, è avvocato e scrittrice in Georgia.

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