“Se infatti la Chiesa, come insegna Dante, deve condurre l’uomo alla felicità eterna e lo Stato lo deve condurre alla felicità terrena, bisogno però aggiungere, con il sommo poeta, che quest’ultima non è meno divina dell’altra, perché l’uomo ha la missione eterna – ed eternata dalla risurrezione finale – di divinizzare anche la vita terrena. Per questo, in un certo senso, lo Stato dovrebbe rappresentare più della Chiesa la missione dell’uomo, come Agostino lo ha fatto più di Monica e Dante più di Beatrice. Ma come senza Monica e senza Beatrice non avremmo avuto né Agostino né Dante, così senza la Chiesa non avremmo neanche quello Stato Perfetto, quell’Atto di tutte le potenzialità dell’umanità che giace misteriosamente nascosto nei desideri di ogni uomo.”

Riflettendo sull’accusa fatta alla Chiesa di volersi sottrarre alla storia, in quanto essa si considera portatrice di un messaggio intangibile dalle contingenze umane, tanto da volerlo mantenere inviolato e inalterato nel corso dei secoli, si è già sottolineata la presenza, nella storia, accanto agli aspetti contingenti, di aspetti metastorici, che non hanno il carattere della contingenza, bensì quello della necessità. Vorrei ora aggiungere che il discorso sul rapporto della Chiesa con la storia, portato avanti dai critici del magistero pontificio quasi che la mobilità e l’evoluzione dei fatti umani costituisse una smentita alle pretese di perennità della dottrina cattolica, si può rovesciare in una conferma del valore intramontabile di quest’ultima.
E per prima cosa notiamo che fa parte integrante dell’“immutabile” dottrina cattolica una grande teologia della storia, che affonda le sue radici nelle lettere di San Paolo e nell’Apocalisse e si svolge nel corso dei secoli, da Agostino fino al cristianesimo secolarizzato dell’idealismo tedesco e alle sue derivazioni, tanto eterodosse quanto ortodosse.
A fondamento di questa teologia della storia vi è l’idea che la presenza nuova di Cristo nel mondo, che vive nella sua Chiesa fino alla fine dei secoli, è come il lievito che fa fermentare tutta la pasta dell’umanità.
«Dio, ricco di misericordia» si legge nella Lettera agli Efesini (2, 4-7), «per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù».
Questa «straordinaria ricchezza» della grazia di Cristo la Chiesa la possiede già nella sua pienezza, ma è necessaria l’opera dei secoli per mostrarne tutta la fecondità nella vita del mondo.
Bisogna qui richiamare quel principio che personalmente considero l’anima segreta di tutta la filosofia, della sua teoria come della sua storia: il principio del primato dell’atto. Secondo questo principio l’atto è metafisicamente primo rispetto alla potenza e quest’ultima è spiegata e determinata essenzialmente da esso, mentre è inconcepibile pensare il contrario.
Su questo principio si fonda tutta la teologia naturale, e grazie ad esso ogni filosofia può essere riportata nei suoi giusti parametri. Ma esso si applica anche alla teologia della storia e al suo mistero. In questa prospettiva quel carattere di necessità e di immutabilità che la Chiesa conserva nella sua dottrina e nella sua intima partecipazione alla vita divina di Cristo non deve essere inteso, come fanno i critici del magistero, quasi fosse un messaggio intangibile dalle contingenze umane e perciò fuori della storia, ma al contrario come un possesso anticipato dell’atto di ogni potenza che agisce nella storia – possesso perfettamente legittimato dal principio del primato dell’atto.
«Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose» (Ef 1, 22-23).
Osserviamo però che c’è, almeno in questo caso, un rapporto dialettico tra la potenza e l’atto: come la potenza aspira all’atto e finalmente si riconosce in esso, così l’atto, anche se già implicitamente posseduto dalla coscienza della Chiesa, non viene pienamente alla luce se non per una sollecitazione della storia, cioè per un’azione quasi rivelatrice operata dalla potenza.
In questa prospettiva possiamo dire che molte conquiste civili, apparentemente osteggiate dalla Chiesa, si sono poi riconosciute come implicitamente contenute nel messaggio evangelico.
Applicando questo principio all’attualità, ne risulta che la grande agitazione che anima il mondo di oggi, lungi dall’essere una negazione della perennità del messaggio cristiano, non è che la ricerca di un atto, la quale non potrà placarsi se non in una rinnovata coscienza della vita divina di Cristo presente già nella Chiesa. Letta in questa luce, la meravigliosa profezia di Isaia (60, 1-22) che si proclama nell’odierna festa dell’Epifania acquista una senso pregnante: essa non si rivolge soltanto alla già avvenuta nascita del Messia, né alla sola adorazione dei Magi, ma si proietta, senza limiti di tempo, su tutta la storia della Chiesa e del mondo:
Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce,
la gloria del Signore brilla sopra di te.
Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra,
nebbia fitta avvolge le nazioni;
ma su di te risplende il Signore,
la sua gloria appare su di te.
Cammineranno i popoli alla tua luce,
i re allo splendore del tuo sorgere.
Alza gli occhi intorno e guarda:
tutti costoro si sono radunati, vengono a te.
I tuoi figli vengono da lontano,
le tue figlie sono portate in braccio.
A quella vista sarai raggiante,
palpiterà e si dilaterà il tuo cuore,
perché le ricchezze del mare si riverseranno su di te,
verranno a te i beni dei popoli.
Uno stuolo di cammelli ti invaderà,
dromedari di Madian e di Efa,
tutti verranno da Saba, portando oro e incenso
e proclamando le glorie del Signore.
Tutti i greggi di Kedàr si raduneranno da te,
i montoni dei Nabatei saranno a tuo servizio,
saliranno come offerta gradita sul mio altare;
renderò splendido il tempio della mia gloria.
Chi sono quelle che volano come nubi
e come colombe verso le loro colombaie?
Sono navi che si radunano per me,
le navi di Tarsis in prima fila,
per portare i tuoi figli da lontano,
con argento e oro,
per il nome del Signore tuo Dio,
per il Santo di Israele che ti onora.
Stranieri ricostruiranno le tue mura,
i loro re saranno al tuo servizio,
perché nella mia ira ti ho colpito,
ma nella mia benevolenza ho avuto pietà di te.
Le tue porte saranno sempre aperte,
non si chiuderanno né di giorno né di notte,
per lasciar introdurre da te le ricchezze dei popoli
e i loro re che faranno da guida.
Perché il popolo e il regno
che non vorranno servirti periranno
e le nazioni saranno tutte sterminate.
La gloria del Libano verrà a te,
cipressi, olmi e abeti insieme,
per abbellire il luogo del mio santuario,
per glorificare il luogo dove poggio i miei piedi.
Verranno a te in atteggiamento umile
i figli dei tuoi oppressori;
ti si getteranno proni alle piante dei piedi
quanti ti disprezzavano.
Ti chiameranno Città del Signore,
Sion del Santo di Israele.
Dopo essere stata derelitta,
odiata, senza che alcuno passasse da te,
io farò di te l’orgoglio dei secoli,
la gioia di tutte le generazioni.
Tu succhierai il latte dei popoli,
succhierai le ricchezze dei re.
Saprai che io sono il Signore tuo salvatore
e tuo redentore, io il Forte di Giacobbe.
Farò venire oro anziché bronzo,
farò venire argento anziché ferro,
bronzo anziché legno,
ferro anziché pietre.
Costituirò tuo sovrano la pace,
tuo governatore la giustizia.
Non si sentirà più parlare di prepotenza nel tuo paese,
di devastazione e di distruzione entro i tuoi confini.
Tu chiamerai salvezza le tue mura
e gloria le tue porte.
Il sole non sarà più la tua luce di giorno,
né ti illuminerà più
il chiarore della luna.
Ma il Signore sarà per te luce eterna,
il tuo Dio sarà il tuo splendore.
Il tuo sole non tramonterà più
né la tua luna si dileguerà,
perché il Signore sarà per te luce eterna;
saranno finiti i giorni del tuo lutto.
Il tuo popolo sarà tutto di giusti,
per sempre avranno in possesso la terra,
germogli delle piantagioni del Signore,
lavoro delle sue mani per mostrare la sua gloria.
Il piccolo diventerà un migliaio,
il minimo un immenso popolo;
io sono il Signore:
a suo tempo, farò ciò speditamente.
E’ molto suggestivo il pensiero di alcuni secondo il quale la Chiesa rappresenterebbe il principio divino e lo Stato il principio umano, ambedue destinati, con un’azione reciproca, a prolungare nello spazio e nel tempo il mistero dell’incarnazione. Ci si può chiedere però come si spiega che la Chiesa, essendo presentata come la “Sposa”, cioè come un principio “femminile”, sia intesa quale principio più divino dello Stato, che, quale principio “maschile”, avrebbe il ruolo guida, il ruolo cioè di Adamo nei confronti di Eva.
La spiegazione è nel fatto che il vero sposo della Chiesa e dell’Umanità è soltanto Cristo e che perciò nessun uomo può assumere il suo ruolo se non nella misura in cui si rende simile a lui. Ora il richiamo della donna all’uomo a rivolgere la sua azione a favore dell’amore e della vita si sublima nel richiamo della Chiesa allo Stato ad elevare la sua azione nello stesso senso. Ma ciò non può avvenire nella misura in cui lo Stato persiste a perseguire scopi puramente terreni e utilitari. In funzione di questi scopi assolutizzati la Chiesa e l’Umanità vedranno troppo spesso lo Stato sacrificare la vita innocente, come il crudele re della Giudea, e «piangeranno i loro figli né vorranno essere consolate, perché non sono più». Nella loro vedovanza attenderanno allora un altro Sposo e non cesseranno di implorare che lo Stato terreno si decida ad avvicinarsi il più possibile al modello divino.
Se infatti la Chiesa, come insegna Dante, deve condurre l’uomo alla felicità eterna e lo Stato lo deve condurre alla felicità terrena, bisogno però aggiungere, con il sommo poeta, che quest’ultima non è meno divina dell’altra, perché l’uomo ha la missione eterna – ed eternata dalla risurrezione finale – di divinizzare anche la vita terrena. Per questo, in un certo senso, lo Stato dovrebbe rappresentare più della Chiesa la missione dell’uomo, come Agostino lo ha fatto più di Monica e Dante più di Beatrice. Ma come senza Monica e senza Beatrice non avremmo avuto né Agostino né Dante, così senza la Chiesa non avremmo neanche quello Stato Perfetto, quell’Atto di tutte le potenzialità dell’umanità che giace misteriosamente nascosto nei desideri di ogni uomo.
Vorrei ora chiedere: la Chiesa sarà veramente fedele al Concilio proponendosi come atto spiritualmente già presente, anche se implicitamente, nel mondo e in grado perciò di risvegliare tutte le energie positive dell’umanità, ovvero rinunciando programmaticamente a questa missione?
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