Un lettore mi segnala il seguente caso.
Il 4 agosto è assurto alla cronaca il comportamento vandalico di alcuni giovani che, per la propria soddisfazione di un “selfie” hanno danneggiato una statua.
La giornalista Concita De Gregorio su “la Repubblica” ha così stigmatizzato l’accaduto:
“Allora dunque ci sono questi cretini integrali, decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca. Ecco ci sono questi deficienti, nel senso che letteralmente hanno un deficit cognitivo – non è mica colpa loro, ce l’hanno – e che però pur essendo idioti hanno probabilmente centinaia o migliaia di followers…”
Salvo puntualizzare nella propria replica:
“Il linguaggio politicamente corretto e il comportamento che ne consegue stanno paralizzando il pensiero e l’azione – specie a sinistra.”
Frutti amari di un relativismo ed un nichilismo che hanno devastato i nostri giovani. E forse, prima, i loro genitori.
Preso “carta e penna”, ho scritto alla De Gregorio la lettera che segue.
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Egregia dott.ssa De Gregorio,
nel leggere il suo “pezzo” su un fatto di cronaca che desta allarme per la superficialità con cui alcuni “giovani” deturpano – per motivi futili – un bene della collettività, ho percepito un sentimento di assenza, qualcosa di nascosto dalle tante parole e dalla rabbia che Lei esterna.
Sia chiaro, rabbia allineata al sentimento della stragrande maggioranza di quanti hanno avuto notizia del vandalismo messo in opera, della superficialità con cui si menoma un’opera d’arte. Rabbia che fomenta quella che già serpeggia in molti, in cerca di un “capro” espiatorio.
Ma…
Ma vi è qualcosa di taciuto, nascosto.
Innanzitutto, una verità nascosta sotto l’uso – ed abuso – di uno stigma dovuto all’intelligenza.
Io frequento giovani – e meno giovani – con ridotte capacità cognitive; il loro Q.I. si estende tra valori che sono inferiori al 30 e per la gran parte non superano il 60: si tratta di handicap gravi e gravissimi, secondo la dizione adottata dalle Amministrazioni pubbliche. Eppure, nessuna di queste persone adotterebbe comportamenti vandalici.
Per inciso: nessuno di loro sbava e se qualcuno lo fa ha la capacità di detergersi autonomamente: dai Suoi ricordi d’infanzia (le scuole differenziali sono state soppresse dall’anno scolastico 1972/73: Lei era poco più che una bambina), le capacità educative e terapeutiche di strada ne hanno fatto, grazie anche ad una maggior sensibilità sociale e ad una diversa capacità di “presa in carico”.
Anche tali risultati sono dovuti al compito di “promuovere la rimozione delle barriere che impediscono agli studenti con disabilità di partecipare pienamente alle attività e alla vita della classe” ed alla vita sociale, compito svolto sia dai docenti di sostegno a ciò qualificati che dalle famiglie che sono state riconosciute, in questi anni, quale punto fondamentale da cui viene sostenuta la vita dei singoli ed in ciò supportate. E moltissime delle persone che si “prendono cura” hanno Q.I. da non dover invidiare Kissinger!!
Le segnalo un paio di “reazioni al Suo articolo: quello della Prof.ssa Cecilia Marchisio docente dell’Università di Torino, delegata di Ateneo per l’inclusione di studenti e studentesse con disabilità e Direttrice della Specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni e alle alunne con disabilità e quello pubblicato da Orizzontescuola.it.
Dunque, il problema non è l’intelligenza, vorrà riconoscerlo.
Il problema non è alcuno degli stigmi addossati – come Lei inverosimilmente riporta – alle persone “diversamente abili”.
La nostra “civiltà” ci ha consentito di maturare un rispetto per le persone, di qualsivoglia origine sociale, culturale, etnica, che è un patrimonio fragile e facilmente può essere disperso, offuscato. Vorrei dire che tale patrimonio è anche l’esito di una cultura popolare imbevuta della “pietas” che il cristianesimo – e in Italia e in tanta parte del mondo, da quella declinazione principale che è il cattolicesimo – ha saputo trasmettere e rendere costitutiva di un modo di relazionarsi.
Vi è un problema più profondo che non la capacità naturale, la performance intellettiva dei singoli.
Numerosi episodi di cronaca – e la vita quotidiana – ci fanno incontrare persone dotate di normale intelligenza ma che non mostrano alcun rispetto per i loro pari o per i propri dipendenti: è di poco tempo fa la tragica cronaca di giovani che ottenevano un reddito con “imprese” (challenges, le chiamano), sfide che stroncano vite innocenti. E nell’esistenza di tutti i giorni vediamo quell’arrivismo (per arrivare dove?) che non ha rispetto di nulla e nessuno: un successo effimero, un piccolo potere, una migliore retribuzione, una “considerazione” sociale.
Se a nulla e nessuno si dovrà rendere conto, se vi sono solo “diritti” e nessuna responsabilità, tutto è lecito.
Salvo quando il “gioco”, tra il lecito e l’illecito – il cui confine è divenuto labilissimo -, lede l’interesse di chi grida più forte, di chi ha un potere coercitivo (per il patrimonio posseduto, per la posizione sociale, per la funzione pubblica che ricopre): allora si corre ad istituire un complesso di regole e regolette – a volte tra loro contrastanti ed illogiche – senza che vi sia ragionevolezza nell’imposizione, che comunque muterà alla prossima convenienza. Così si declina quel vero totem che è il rispetto di regole sociali “politicamente corrette” che talvolta possono essere denunciate come “immobilismo” (sic!).
E’ forse il fallimento di un’ideologia libertaria (o libertina, per certi aspetti) da parte di quel mondo di “adulti” che ha abdicato al proprio compito educativo, abdicando al proprio assoggettamento ad un Oltre, o creandolo a proprio gusto e quindi cambiandolo in un relativismo, in una volubilità che non ha alcun centro, alcun “punto fermo”.
Questo mi sembra il punto: non riconoscere che quella “stupidità” è originata dal relativismo, se non dal nichilismo, di chi – in determinate circostanze – ne viene disturbato.
Forse c’è qualcosa di diverso e di ben più grave da mettere in discussione che non l’intelligenza di chi ci infastidisce.
«Da settimane siamo spettatori, …, di avvenimenti che comportano un totale disprezzo della giustizia e dell’umanità, per non parlare dell’amore del prossimo. ….
… Questo boicottaggio – che nega alle persone la possibilità di svolgere attività economiche, la dignità di cittadini e la patria ha indotto molti al suicidio…
Tutto ciò che è accaduto e ciò che accade quotidianamente viene da un governo che si definisce “cristiano”».
Parole che, per guardare al nostro recente passato, sembrerebbero scritte tra il 2020 ed il 2022. Sono invece del 1933, contenute in una lettera scritta a papa Pio XI da Edith Stein (di cui oggi ricorre la memoria). C’è qualcosa di analogo? C’è forse un “mea culpa” prima – o accanto – all’accusa ed all’invettiva?
Termino con il breve racconto di cosa possa voler dire “educazione”:
«Uno dei miei amici, il professor Varkani, docente di embriologia a Cincinnati, mi ha raccontato il fatto seguente: “Una notte, quella del 20 aprile 1889, mio padre, medico a Braunau in Austria, è chiamato per due parti. Uno era un bel bambino che strillava a pieni polmoni; l’altro una povera bambina trisomica. Mio padre ha seguito i destini di questi due bambini. Il bambino ha avuto una carriera straordinariamente brillante; la ragazzina, invece, un cupo futuro. Tuttavia, quando la mamma è stata colpita da emiplegia, la ragazza, il cui quoziente intellettivo era assi mediocre, è riuscita con l’aiuto dei vicini ad occuparsi della casa e a rendere felci i quattro anni in cui sua madre è rimasta immobile a letto”. L’anziano medico austriaco non ricordava più il nome della ragazza, ma non ha potuto mai dimenticare quello del bambino: Adolf Hitler». (Jean-Marie Le Méné, Il Professor Lejeune fondatore della genetica moderna, ed Cantagalli, 2013 p. 54)
La saluto cordialmente e spero vorrà trattenere ciò che di buono ho cercato di trasmetterle con questa mia.
Daniele Salanitro
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