di Giorgia Brambilla
Nel 1980 il laboratorio francese Roussel-Uclaf mette a punto la molecola del mifepristone per rendere possibile l’aborto “chimico”, che nella mente del suo inventore Étienne Émile Baulieu doveva servire per realizzare l’aborto nei Paesi in cui la pratica chirurgica poteva risultare pericolosa (unsafe abortion). La RU486 comincia a diffondersi in gran parte dell’Europa a partire dal 1988 e nel 2001 arriva in Italia. Nel 2009 l’Azienda Italiana del Farmaco (AIFA) autorizza la vendita della pillola sotto il nome commerciale “Mifegyne” e il numero di aborti chimici sale drasticamente, arrivando nel 2017, secondo il Ministero della salute (qui), a 14.267.
Fino al “tweet” di Speranza (qui) il nostro Ministero della salute prevedeva il ricovero ospedaliero per l’aborto farmacologico di tre giorni e il limite massimo di applicazione alle 7 settimane di gestazione (qui). Ora, secondo delle “linee guida” non ancora pervenute ma che, stando alle notizie, avrebbero già il sostegno sia della SIGO (Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia) e del Consiglio Superiore di Sanità, si cercherebbe di promuovere un aborto in regime di Day hospital, ampliando la finestra a 9 settimane di gravidanza.
Già durante la pandemia si era provato a spingere l’acceleratore della RU486, proponendo un “aborto a domicilio” con la scusa di non “congestionare gli ospedali” (qui): l’idea evidentemente era già nell’aria. Non bisogna dimenticare che la procedura abortiva farmacologica non è né semplice né indolore come ci viene presentata. I protocolli attualmente in uso per l’aborto chimico con RU486 prevedono la somministrazione del mifepristone con una permanenza ospedaliera di alcune ore (che ora verrebbe ridotta a mezz’ora in consultorio o in ambulatorio). L’azione della pillola abortiva consiste nel provocare un lento distacco dell’embrione dal grembo materno che solamente nel 3% delle donne si verifica entro due giorni (A. Morresi, E. Roccella, La favola dell’aborto facile. Miti e realtà della pillola RU486, 2010). Quindi, una volta presa, la donna dovrà controllare l’entità dell’emorragia e recarsi dal medico ad espulsione avvenuta. Se questa non si verifica, viene somministrato un’altra pillola a base di prostaglandine, il misoprostolo, per completare l’espulsione del sacco amniotico contenente l’embrione. Questo evento è doloroso a causa delle contrazioni uterine e si accompagna a una serie di effetti collaterali che non riguardano solo la salute fisica, ma anche quella psichica – si pensi, ad esempio, allo shock per la visione dell’embrione abortito (S.Barbieri, L’aborto banalizzato e mascherato e le conseguenze della mentalità contraccettiva: questioni scientifiche e morali, 2020).
I rischi per la salute fisica della donna causati dalla RU486 sono talmente evidenti che la FDA (Food and Drug Administration) ne sconsiglia da tempo l’utilizzo in alcuni casi: sospetta gravidanza ectopica, uso di spirale ormonale e superamento di 49 giorni di gestazione (che ora invece salirebbero a 63). Inoltre, risulta che negli studi sperimentali operati sulla RU486 fossero state escluse donne con le seguenti caratteristiche: ipertensione, malattie respiratorie, epatiche, renali e cardiovascolari, fumatrici ed età superiore ai 35 anni (M.L. Di Pietro, M. Casini, Il mifepristone, 2002). Nonostante queste indicazioni, nel corso del tempo, si sono registrati decessi collegati in qualche modo all’utilizzo della RU486. Su questo argomento, un elenco della FDA (qui) aggiornato al 2017, riporta 22 casi di morte direttamente attribuibili all’uso abortivo della RU486 solo negli Stati Uniti. Fra i casi più frequenti si registrano episodi di setticemia e altri casi di emorragia acuta e morte causati da mancato ricovero ospedaliero.
Eppure, questa pillola – definita da Jerome Lejeune “pesticida umano” – viene “indorata” dai nostri politici e presentata alle donne come “segno di maggiore libertà” e addirittura come “passo avanti verso la civiltà”, inducendole a pensare che sia innocua. In fondo, cos’è una pillola? È una “pallottina” – così la denomina la Treccani – che non sempre ci guarisce, ma di sicuro ci fa stare meglio, quella che prendi con fiducia, anche se di quello che c’è scritto sul chilometrico bugiardino non capisci neanche la metà, perché te l’ha consigliato il protettore per eccellenza della tua salute: il medico. Così anche l’aborto diventa più “dolce”: non serve nemmeno il nosocomio; «dunque, non è così grave, no?», si tenderà a pensare.
Da quando, infatti, si cominciò la sperimentazione all’ospedale Sant’Anna di Torino, lo status quaestionis dell’argomento è stato pilotato – e dirottato – prima di tutto su un’idea fasulla, eppure piuttosto radicata nell’immaginario comune, secondo cui l’aborto sia meno traumatico proporzionalmente all’età gestazionale; dunque, poiché la RU486 si somministra entro le 9 settimane, il vissuto non sarebbe poi così drammatico. Inoltre, si ritiene che l’impatto emotivo cambi anche in relazione all’aspetto chirurgico-ospedaliero: a casa propria non si deve rendere conto a nessuno.
Sul primo aspetto, è inutile dire che il dolore per la perdita di un figlio – che lo si riconosca o meno come tale – non varia in base al suo peso, ai suoi centimetri o ai giorni che ha trascorso nel tuo grembo e ormai gli studi sulla cosiddetta “sindrome post-abortiva” si sprecano (C.Navarini, Post-aborto e autodeterminazione della donna, 2015). Riguardo al secondo, come si può pensare che una donna, persino quella apparentemente più convinta, preferisca affrontare da sola un passo così traumatico, che a sua volta realizza una decisione da tutte – e dico tutte – sentita come estrema, all’interno di un vissuto, come quello gravidico, anche dal punto di vista ormonale di fragilità e confusione, autosomministrandosi ciò che metterà la parola “fine” alla vita che si ha dentro di sé seppure rifiutata? E anche se lo volesse, come sarà possibile contenere tutti i rischi in quella solitudine e lontano dalla vigilanza clinica?
Sembra assurdo, eppure lo “zucchero” con cui ci vogliono far accettare questa pillola è questo: niente aghi, niente ricoveri, un goccio d’acqua e via il problema! Già, il “problema”. Quell’essere umano realmente esistente, individuo dalla fecondazione, vivo e vitale, è lui l’eterno escluso dal dibattito sulla RU486 e per lui nulla cambia se l’aborto è chirurgico o farmacologico: «ghigliottina o fucilazione, iniezione velenosa o sedia elettrica, sempre di pena di morte si tratta. Anzi, quanto più l’agire del boia è pulito e indolore, tanto maggiore è il rischio di un addormentamento delle coscienze» (M.Palmaro, Aborto e 194. Fenomenologia di una legge ingiusta, 2008).
Il grembo è diventato invisibile. E con la RU486 ad essere condannato all’invisibilità non è solo chi nel suo intimo calore avrebbe diritto sempre e comunque a crescere, svilupparsi per poi venire alla luce, ma anche colei che di quel grembo è custode: la madre, allontanata, isolata, resa monade dalla sua pseudo-scelta.
Quale sarebbe, allora, la “civiltà” di cui la 194 sarebbe emblema? Uccidere non è mai “civile”. Anzi, c’è da chiedersi come sia possibile una vera convivenza pacifica che non passi attraverso la salvaguardia dell’essere umano e non fondi su questo la Grundnorm del proprio sistema. E questo perché la fonte ultima dei diritti umani non si colloca nella volontà delle persone, nella realtà dello Stato, nei poteri pubblici, ma nell’uomo.
La pace e la normale convivenza sono in pericolo non quando non è possibile che ognuno faccia ciò che vuole secondo un’idea minimal di “tolleranza”, ma più radicalmente quando all’uomo non è riconosciuto ciò che gli è dovuto in quanto uomo, a cominciare dalla sua vita e dalla sua dignità. Solo così si garantisce il principio – costitutivo di ogni democrazia – della non disponibilità della vita umana, che rende possibile parlare di civiltà.
Scrivi un commento