L’intervista che segue a dom Giulio Meiattini, OSB, a cura di Bernard Dumont, è apparsa sulla rivista francese Catholica n. 156 (2023), della quale Dumont è il direttore. Dom Giulio Meiattini ha ricevuto il permesso dal direttore della rivista di riproporla in italiano. Sono lieto di pubblicarla per i lettori di questo blog. 

 

Baldacchino di San Pietro è la monumentale struttura barocca che Gian Lorenzo Bernini costruì tra il 1624 e il 1633 per l'altare maggiore della Basilica di San Pietro a Roma
Baldacchino di San Pietro è la monumentale struttura barocca che Gian Lorenzo Bernini costruì tra il 1624 e il 1633 per l’altare maggiore della Basilica di San Pietro a Roma

  

  1. In uno studio sul rapporto tra modernità e secolarizzazione all’epoca vittoriana, Jean-Michel Yvard, docente di civiltà britannica presso l’università di Angers, riprende la tesi di Marcel Gauchet nel libro Le désenchantement du monde, quella di una “religione dell’uscita dalla religione”, in concreto, di un recupero laico del cristianesimo, soprattutto nelle opere di carità[1].

 

Meiattini: La tesi di Marcel Gauchet sul cristianesimo come «religione dell’uscita dalla religione» non è del tutto nuova. Il filosofo marxista Ernst Bloch, come suggerisce esplicitamente il titolo di un suo libro (Ateismo nel cristianesimo, 1968), aveva già considerato la rivelazione biblica, e in particolare l’incarnazione, come l’inizio di un movimento di svuotamento del Cielo a favore della terra degli uomini. L’identificazione giovannea di Gesù col Padre – “Io e il Padre siamo uno” – rappresenterebbe, secondo lui, una svolta all’interno della visione religiosa del mondo: il farsi uomo di Dio, rende Dio l’uomo. Così, gli attributi divini si spostano all’interno dell’antropologia e al posto di una religione del Padre prende avvio una religione del Figlio (come già suggeriva Freud) incentrata sull’essere umano, sul “figlio dell’uomo” portato alla sua pienezza. Questo, per Bloch, sarebbe il seme ateistico insito nella rivelazione cristiana, come anche in una certa mistica dell’essenza (per esempio quella eckartiana) che tende a far coincidere il fondo dell’anima con l’essenza divina, e viceversa. Egli poteva affermare, così, che il rivolgimento della teologia in antropologia, operato da Feuerbach, non fosse altro che l’inveramento della religione dell’incarnazione. Dunque, il marxismo ateo di Bloch intendeva essere, in fondo, non un semplice rifiuto della fede cristiana, ma una sua ripresa ermeneutica radicale per superarla dall’interno.

Una lettura molto simile la ritroviamo in un altro pensatore, più recente, di ambito francese, Jean-Luc Nancy. Nella sua opera Dèconstruction du christianisme (2005) egli sostiene che il mondo moderno – con i suoi esiti non solo atei, ma anche nichilistici – non è una deviazione dal cristianesimo, bensì il cristianesimo portato alle sue ultime conseguenze. Per questo filosofo (scomparso nel 2021) il cristianesimo è il movimento stesso della sua dissoluzione in quanto religione, perché il suo principio più profondo è proprio il gesto della semplice e pura “apertura” in quanto tale (l’incarnazione come estroflessione di Dio), apertura indefinita e assoluta. Il rapporto del cristianesimo con se stesso sarebbe, perciò, quello di un’indefinita uscita da sé. Nancy cita esplicitamente Gauchet, dichiarandosi pienamente d’accordo con la tesi di fondo del libro Le désenchantement du monde.

Vorrei qui citare ancora un’altra opera, questa volta di un noto pensatore italiano. Si tratta del libro Credere di credere (1996), di Gianni Vattimo, l’esponente più noto del cosiddetto “pensiero debole”. Egli, in modo molto simile rispetto agli autori citati, parte dalla centralità della caritas nell’identità cristiana e dal suo manifestarsi attraverso l’atto kenotico dell’autorinuncia divina, lo svuotamento di sé da parte del Dio-amore. Il Deus-caritas compie la suprema delle rinunce, la rinuncia a se medesimo in nome di sé. Non l’uomo proclama e determina la “morte di Dio”, ma è Dio stesso che, in quanto amore, muore per trasformare l’uomo da servo in amico, in uguale a sé. Ancora una volta abbiamo un’ermeneutica del cristianesimo come uscita da se stesso. La religione dell’amore kenotico si attua, paradossalmente, nel suo indebolimento massimo, fino all’estenuazione della rinuncia a ogni verità e identità dogmatiche e istituzionali proprie. Il cristianesimo evapora.

Da questi pochi accostamenti si può capire che la tesi del sociologo francese è una variante di un’idea di fondo che il pensiero contemporaneo ha coltivato in diverse forme. Da tutto ciò si può cogliere un dato elementare, ma fondamentale: la profonda connessione fra crisi della cultura occidentale e crisi del cristianesimo.

 

  1. Il mondo protestante è stato senza dubbio il primo a sperimentare questo cambiamento, ma il mondo cattolico non sta forse vivendo lo stesso fenomeno, e sempre di più?

 

Meiattini: E’ ciò che sembra accadere pressoché in ogni confessione cristiana e anche nel mondo cattolico. L’ortodossia sembra meno esposta a questo fenomeno. D’altra parte, la stessa teologia aveva enunciato da tempo queste idee. La “teologia della secolarizzazione”, nelle sue diverse correnti, ha tentato di mostrare la derivazione cristiana dell’emancipazione del mondo moderno da Dio. Si ricordino le celebri intuizioni dell’ultimo Bonhoeffer nelle lettere dal carcere. Egli abbozza l’idea di un Dio che, nella sua morte in croce, accetta di essere estromesso dal mondo umano, affinché l’uomo giunga alla sua “età adulta”, alla sua maggiore età. Da qui il suo auspicio di un cristianesimo “non religioso”, che è una variante della separazione fra fede e religione promossa dalla teologia dialettica.

Un teologo cattolico come J. B. Metz ha pensato, anche se in maniera più moderata, di far risalire i presupposti della secolarizzazione alla stessa rivelazione biblica, la quale sarebbe all’origine di una concezione del mondo come sfera affidata all’uomo e alla sua libertà, un “mondo mondanizzato” e “ominizzato” per disposizione stessa di Dio, non un mondo sacrale, fissato da leggi immutabili. Anche se Metz introduce il correttivo della distinzione fra “secolarità” (buona) e “secolarismo” (negativo), queste idee mostrano una certa parentela con quelle degli autori prima ricordati.

Senza negare la validità di alcune intuizioni presenti in queste visuali, c’è da domandarsi se un simile approccio non abbia l’aria di una tardiva giustificazione o richiesta di scuse della teologia davanti al rimprovero proveniente dalla cultura moderna al cristianesimo, che avrebbe ecceduto nel sottolineare e predicare la dimensione oltremondana, trascurando la dimensione terrena dell’uomo e la sua liberazione dalle alienazioni intramondane. Sembra che i cristiani, compresi i cattolici, siano afflitti da un complesso di inferiorità nei confronti della modernità o da una specie di senso di colpa. Come se si volesse dimostrare, davanti alla società odierna, che siamo stati noi ad aver posto le premesse dell’attuale emancipazione del mondo dall’istanza sacrale, che la fede cristiana difende i valori mondani e si spende per la liberazione dell’uomo dal vecchio “Dio sacrale”.

Qui si può capire perché la presentazione del cristianesimo incentrata nell’esercizio delle opere di carità, slitti alla fine in una semplice etica secolarizzata e comprensibile da tutti. Attualmente la Chiesa sembra che consideri questa strada come la carta su cui puntare, il modo più facile per farsi accettare e ammettere un po’ da tutti. In questo modo, però, assistiamo, di fatto, all’assimilazione del cristianesimo all’etica universale, non all’evangelizzazione del mondo.

 

  1. I mass media e la cultura dominante sono per la maggior parte puramente laici. Ma sembra che la voce pubblica della Chiesa stia seguendo l’esempio, sia mettendo in primo piano le stesse «grandi cause» – la «salvaguardia del pianeta», l’«accoglienza dei migranti», la pace tra le religioni, l’equa distribuzione delle ricchezze, e così via – sia annunciando la Buona Novella al mondo in modo molto molto discreto, o soltanto per assumere il ruolo. Il risultato è uno squilibrio percepito tra un atteggiamento «umanista» da un lato e un discorso istituzionale senza convinzione dall’altro. Non è così?

 

Meiattini: Che il mondo cattolico e quello cristiano in generale si allineino in modo così marcato a quelle che lei ha chiamato “grandi cause” (solidarietà, tolleranza, ecologia, egualitarismo, ecc.) e ne facciano la propria bandiera, è l’esemplificazione più chiara del “cristianesimo uscito da se stesso”, del cristianesimo secolarizzato. A mio avviso questo dipende, almeno in certa misura, proprio dal senso di colpa di cui dicevo poc’anzi e che i cattolici hanno introiettato. Dopo aver addossato alla Chiesa del passato molti errori, adesso i cattolici vivono nell’ansia di farsi perdonare, mostrandosi devoti verso i luoghi comuni della mentalità liberal politicamente corretta. Si è passati dal “non condannare”, perché il mondo potesse sentirsi accolto e ascoltato, al “chiedere perdono”. Un bel salto mortale!

Negli ambienti ecclesiali si è criticata ripetutamente una certa religiosità del passato che avrebbe favorito troppo il senso di colpa o il peccato, a motivo di un’immagine dura e severa di Dio. Non si può negare che c’è del vero in quest’osservazione, ma l’aspetto paradossale è che al senso di colpa verso Dio si è sostituito oggi quello (per lo più inconscio) verso la cultura egemone. C’è come il timore che dalla società si levi sempre nuovamente verso i cattolici il rimprovero di essere anacronistici e sradicati dal mondo o contrari ai diritti e alle libertà. Da qui, penso, lo sforzo di mostrarsi compiacenti verso i loci communes dell’etica liberal oggi di moda. Ne deriva un cristianesimo light, che non deve urtare nessuno, in nome di un amore che non ha più nessun contorno chiaro.

Così può succedere che il rispetto dell’altro, in sé sacrosanto, porti a giustificare ogni comportamento, anche immorale, e la preoccupazione per la salute del pianeta faccia dimenticare l’ecologia dell’anima e il rispetto per la “natura umana” in quanto immagine indelebile di Dio. In altre parole si dimentica l’et-et cattolico e la giusta gerarchia che esso implica fra gli aspetti che vanno tenuti insieme.


  1. Ci si chiede come possa avvenire una tale trasmutazione della carità, che è amore di Dio e amore del prossimo intimamente legati, in ogni tempo ma soprattutto oggi. A proposito delle missioni, per un certo periodo si è parlato di «apostolato della semplice presenza», oggi ci sembra di andare molto oltre, constatando che spesso la carità, nei discorsi e nelle azioni di molti cattolici di ogni grado, si riduce all’assistenza corporale, all’accoglienza, al dialogo, ecc. senza alcun legame esplicito con l’espressione del suo motivo o con la sua esplicitazione. A volte certi cattolici si sentono addirittura offesi se si sospetta che vogliano evangelizzare. Come si spiega questo, a sessant’anni dal Concilio Vaticano II?

 

Meiattini: I motivi di questa “timidezza”, nel modo di presentarsi del cristiano e della Chiesa nel contesto odierno, penso siano molteplici ed è difficile farne una diagnosi adeguata. Si tratta di un atteggiamento rinunciatario, insicuro. Potremmo definirlo una forma di mimetismo, perché agendo in questo modo si fanno le stesse cose e si dicono le stesse parole che quasi chiunque oggi potrebbe fare e dire. Tutto questo, comunque, è del tutto coerente con quanto si è detto prima sulla “religione dell’uscita dalla religione”.

Qualche anno fa un noto teologo, durante una conferenza presso una pontificia Università romana, ad un certo momento ha affermato: “Una volta si pensava più l’uomo in funzione di Dio, oggi si pensa più Dio in funzione dell’uomo. Se questo è legittimo o no, chi lo sa? Io non oso decidere quale delle due prospettive sia la migliore”. Sono parole che portano alla superficie un modo di sentire e vivere la fede molto diffuso. Teologia e antropologia possono invertire il loro rapporto, subordinando Dio al benessere e al compimento umano, e il teologo non ha nulla da dire in merito. Perché allora meravigliarsi se i volonterosi credenti e le generose strutture ecclesiali si mettono a servizio delle povertà odierne della società e dell’uomo e tacciono su Dio e su Gesù Cristo? Se l’importante è servire l’uomo, l’annuncio del Vangelo diventa inessenziale. Perché il Vangelo è, nel suo cuore, il Regno di Dio, ovvero il riconoscimento che tutti sono chiamati a riconoscere e glorificare l’infinit grandezza e bontà di Dio.

Il tema però si fa più delicato, e richiederebbe ben altri approfondimenti, quando pensiamo ad alcuni eminenti esempi di santità contemporanea che, a contatto di contesti non cristiani hanno adottato un modo di annunciare il Vangelo fatto più di testimonianza che di annuncio diretto ed esplicito. Charles de Foucauld, per esempio, non si è impegnato direttamente nel tentativo di convertire i musulmani con cui aveva a che fare, anche se in fondo egli desiderava portare Cristo a chiunque. I lunghi anni della sua permanenza fra i popoli islamici non ha portato a nessuna conversione. Spesso viene indicato come un esempio di quell’apostolato della semplice presenza che lei ha appena ricordato.

Anche Madre Teresa di Calcutta, chiamando le sue suore Missionarie della Carità, ha indicato uno stile particolare di missione, consistente nel rendere presente il volto della carità di Cristo verso i più poveri e abbandonati, senza ricorrere a un annuncio verbale esplicito. Ella arrivò a dire:  «Ho sempre detto che avremmo aiutato un induista a diventare un induista migliore, un musulmano a diventare un musulmano migliore, un cattolico a diventare un cattolico migliore ».

Personalmente non mi sentirei di accettare in pieno queste ultime parole. Tuttavia due cose vanno notate. In primo luogo ambedue questi esempi moderni di santità hanno sempre manifestato la centralità di Gesù Cristo nella loro vita e missione, senza nessuna incertezza. Erano dei religiosi, la loro vita era costantemente orientata a Dio, la fede evangelica emanava da ogni loro gesto e respiro, anche senza bisogno di parole. Era chiaro che la loro vita si spiegava solo con Gesù Cristo. In secondo luogo, penso che essi abbiano additato uno stile possibile, ma non l’unico, di testimoniare il Vangelo. All’interno della Chiesa si può e si deve annunciare il Vangelo in vari modi. E il modo dell’annuncio esplicito non può mai venire meno, nell’insieme della vita ecclesiale, se non vogliamo contravvenire all’esempio e al comando dello stesso Gesù: in parole e in opere egli ha annunciato il Regno di Dio e in parole e opere ha comandato ai discepoli di annunciarlo a loro volta.

 

  1. L’ «americanismo» un tempo denunciato da Papa Leone XIII, che cercava di dare priorità all’azione organizzata rispetto alla contemplazione, ha segnato alcuni momenti del novecento, soprattutto come tentazione per l’Azione Cattolica. Da qualche tempo, sembra che stia riprendendo piede in una forma abbastanza simile, con il recupero di metodi di apostolato che una parte del clero si aspetta di vedere rinnovati, metodi mutuati in particolare dagli evangelici americani. Non c’è forse un legame paradossale tra questa opzione, diciamo così, tecnicista dell’apostolato e la «religione dell’uscita dalla religione»?


Meiattini: Non so se l’americanismo di fine Ottocento rappresenti una possibile analogia coi fenomeni più attuali da lei ricordati. La mia impressione, sia pur da monaco che vive lontano dall’azione pastorale propriamente detta, è che in questa fase della storia della Chiesa ci troviamo davanti a qualcosa di nuovo. Oggi il nodo problematico è costituito da una formula che porta l’imprimatur. Mi riferisco alla “svolta pastorale”. Questa formula ci accompagna da alcuni decenni e si è trasformata nella chiave di volta di una rilettura generale della vita e della missione della Chiesa. Tutto viene passato attraverso il vaglio della prospettiva pastorale, intesa di fatto unilateralmente come “adattamento” alle condizioni dell’uomo contemporaneo.

A me sembra, però, che la pastorale, in questa accezione parziale, non può avere questo ruolo di pietra angolare nell’architettura generale della vita ecclesiale. Mi domando, per esempio, cosa ne è stato del richiamo costante di Sacrosanctum Concilium all’unità ordinata fra glorificazione di Dio e salvezza degli uomini, quando vedo che l’aspetto dossologico della trascendenza di Dio è praticamente scomparso dalla sensibilità spirituale della maggioranza dei sacerdoti e dei fedeli. Mi domando, ancora, cosa ne è stato del primato dell’ascolto della Parola di Dio nel solco della Tradizione (Dei Verbum), quando vedo che esso è in pratica sostituito dall’ascolto dei “segni dei tempi” cioè, di fatto, del costume sociale, il quale assurge in certi casi a “luogo teologico” primario, giustificando degli strappi clamorosi (come nel caso del Sinodo tedesco) rispetto all’insegnamento tradizionale della Chiesa.

Questo modo di praticare e intendere la “svolta pastorale”, culminante con lo slogan della “Chiesa in uscita”, mi sembra si accordi per molti aspetti con la tesi di Gauchet della «religione dell’uscita dalla religione». La Chiesa in uscita, nei fatti, si sta rivelando sempre di più come uscita dalla Chiesa. O, se vogliamo parafrasare Gauchet, “la Chiesa dell’uscita dalla Chiesa”.

 

[1] http://cle.ens-lyon.fr/anglais/civilisation/domaine-britannique/le-christianisme-comme-religion-de-la-sortie-de-la-religion-modernite-et-secularisation-a-l-epoque-victorienne

 


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