Parlamento, palazzo Montecitorio

 

 

di Mattia Spanò

 

Caro Costante,

Grazie per l’onore che mi fai rispondendomi. Nel tuo garbato dissenso avverto il segno che l’assurdo da me proposto possedeva qualche spunto degno di nota.

Magari appena degno, o soltanto utile a portare la discussione su un piano più profondo, come mi sembra tu faccia.

Ti devo anche un anticipo di scuse per l’ampiezza di questa mia, spero non del tutto sterile. Durante il nostro primo incontro, ormai molti anni fa, dicesti che la grande domanda cui bisognava rispondere sul piano culturale era: a cosa serve la politica?

Se fosse stata presa sul serio, se sul piano pratico si fosse ricostituita una dialettica positiva fra politica e società premettendo che la politica è cosa necessaria, forse non saremmo a questo punto.

Se la politica italiana avesse una fisionomia (bella o brutta) non saremmo così proni a vincoli esterni: ciò che grava sull’Italia grava su altri paesi membri UE, come Austria e Ungheria, tuttavia questi esprimono istanze proprie, a differenza nostra.

Arrivo alla questione che apparecchi: il Centro in funzione antipolare. Un’idea politica prima che un partito.

Siamo costretti dentro estremismi, nell’incapacità di mediare tra posizioni distanti, cui fa eco il contrappasso di una grave irrilevanza internazionale, in certa misura anche interna. Tu sei un testimone privilegiato del fatto che non è sempre stato così.

Dopo Tangentopoli abbiamo assistito, oltre alle performance di governi tecnici di “salvezza nazionale” che ben poco hanno salvato esacerbando al contrario la frustrazione dei partiti, ad accrocchi vieppiù confusi culminati nei due governi più improbabili della storia repubblicana, quello giallo-verde e quello giallo-rosso, carichi di devastanti contraddizioni infine dissolte nell’unità nazionale che ha puntellato Draghi, abdicando nell’occasione al ruolo del parlamento ridotto a notaio del governo.

Nella tua analisi ferrea qua e là domandi il “perché” di certe scelte, e non sai darti una spiegazione. Temo stiamo scivolando in una dimensione non-euclidea politicamente e socialmente pericolosa.

Azzardo una risposta. Da un lato, l’arcinota attitudine paracula a mestare nel torbido confondendo l’opinione pubblica, attitudine tesa al mantenimento dello status quo bipolare che ha fatto la fortuna di leader uno più populista dell’altro – metto nel mazzo anche Letta, Renzi, Calenda – e rispettivi assembramenti di sensali.

Dall’altro, in questa insensatezza (a me sembra tale) vedo un impedimento cui fanno fronte tentando di sparigliare le carte. Purché venga qualcosa a spezzare l’incantesimo. In questo senso interpreto le sedute spiritiche per evocare “l’agenda Draghi” e “il metodo Draghi”. Con la palingenesi del fu cristiano, ora draghiano, Vittadini che ancora mi rimbomba nelle orecchie.

Non sarei stupito da un eventuale governo rosso-blu (o rossonero, secondo i maligni), Pd-FdI. Calenda ha ragione su un punto: il prossimo governo non dura sei mesi. Quanti mandati esplorativi dovrà conferire Mattarella? Quanti rimpasti? Quante elezioni estive, natalizie o pasquali ci attendono? Sei anni di presidenza bis sono lunghi.

Vediamo se riesco a inquadrare il problema per come lo vedo io.

I signori delegati hanno campato, dal 2020 ad oggi, di certezze pitagoree. Prima sulla pandemia – lockdown, mascherine, vaccini, distanziamento fisico – oggi sulla guerra. Non ha funzionicchiato.

In prospettiva, si profilano questioni banallime come conciliare la transizione digitale con il razionamento energetico. Cosa fare coi sanitari non vaccinati sospesi al momento rimpiazzati da sanitari ucraini o cubani altrettanto non vaccinati.

Un intero pezzo della società italiana – minoritario finché si vuole, complottista, no-vax, terrapiattista finché fa piacere crederlo – che però svolgeva una funzione di pubblica utilità (penso, oltre ai sanitari, a insegnanti e forze dell’ordine, come a chiunque altro) vive nel limbo, e non si fida più. A costoro dai partiti di sistema non viene detta una parola.

Con una metafora idrica, buona anche per i gasdotti: se levo il 10% di pressione al tubo, non è che arriva il 90% dell’acqua. Non ne arriva neanche una goccia.

Come recuperiamo alla vita civile questi parìa? E i danneggiati da vaccino, i famosi “ansiosi” secondo la più parte delle sapienti diagnosi in voga? Anche fosse ansia che inchioda al letto devastati da parestesie, come se ne fa carico lo Stato? Chi farà il lavoro di gente sana ridotta a malata cronica (per tacere dei morti)?

Procedere per assunti apodittici senza curarsi di aspetti concreti che prima o poi presentano il conto – incluso l’imponderabile – è una pessima scelta politica.

Se un ministro della salute dice “non è questione politica, decide la scienza”, un ministro della salute non serve: leggo il Lancet e decido il da farsi. Tutto ciò che riguarda altri da noi è questione politica.

È una battuta, tuttavia ho poche riserve sul fatto che ridurre la politica a tweet salaci o messaggi diversamente intelligenti come “scegliere fra la pace e il condizionatore acceso”, obblighi i suoi attori a cristallizzare se stessi in un empireo criogenico, edificato su alchimie politiche sempre più barocche e clientele sempre più sparute.

Il Centro, cosa diversa dai quattro amici al bar del Terzo Polo, storicamente vituperato e scaricato senza garbo garantiva almeno l’integrità di due aspetti a mio giudizio cruciali: l’identità (dei partiti e di corpi intermedi nel frattempo vaporizzati), e le regole del gioco (innanzitutto costituzionali).

Oltre che complementari, sono capisaldi alternativi: dove manca identità tampono con le regole, e viceversa. Di entrambe nel medesimo tratto, non si può fare a meno. Se l’acqua è un bene pubblico, non posso privatizzarla, punto e a capo. Malagestione, sprechi? Pongo rimedio, ma non violo il principio.

Invece precisamente a identità e regole si è rinunciato, puntando tutto sulla “reputazione” di Mario Draghi. Un travicello debole.

Il disagio è palpabile in ogni persona che dichiari appartenenza ad un ambito culturale circoscritto: il cattolico, il comunista, il liberale di destra, il pastafariano, l’ultrà atalantino.

La scelta sembra quella fra l’autodafé (voto Pd perché credo nei diritti come mi vaccino perché credo nella Scienza, e poco mi cale se i diritti vengono calpestati e il vaccino non funziona) e il prendere atto di un’offerta politica non semplicemente scadente, ma elusiva della realtà.

L’elettore, che giustamente inviti a “provare a cambiare”, concretamente si trova di fronte due blocchi: il primo, formato da partiti già presenti in parlamento, cioè uscenti – con l’eccezione di FdI, che però dovrà giocoforza governare con alcuni governativi – dall’attuale governo e legislatura.

Il secondo, rappresentato da uno sparuto gruppetto di forze nuove nate da costole di partiti già esistenti e sull’onda del trauma pandemico. Forze reazionarie, troppo polarizzate su alcuni temi per dare garanzie di ampio respiro. Ma come dice il protagonista di The Equalizer, “se preghi per la pioggia, il fango va messo in conto”.

Se esistesse un Centro capace di calamitare e temperare istanze di base – garantendo, ad esempio, che certi diritti non vengano più violati per nessuna ragione al mondo – si potrebbe recuperare un equilibrio, un buonsenso comune, evadendo dalla trappola del mors tua vita mea.

Vediamo invece, oltre alla fuffa dello ius scholae, nuovi diritti ed evergreen come pensioni minime a mille euro e un milione di alberi piantati, paurose giravolte sui temi energetici e ambientali stella polare della sinistra ecologista: dopo quarant’anni spesi a bruciare sul rogo chiunque accennasse alla possibilità del nucleare e a guerre senza quartiere a rigassificatori e pipeline (anche le rinnovabili sono state ostacolate), eccoci all’inversione di marcia contromano in autostrada.

È un pallido esempio della clamorosa sconfessione dell’offerta politica presente, passata e futura. Chi mi garantisce che domani non sconfessino la sconfessione, e dopodomani non sconfessino la sconfessione della sconfessione? Nessuno.

La zelante falciatura dei corpi intermedi come erba secca (anche qui, sbrigativamente bollati come carrozzoni, e certo in parte lo erano, non solum sed etiam) ha finito il lavoro. Oggi le persone sono sole e isolate. Questo è un dato politico allarmante, cui non porranno rimedio quattro sciatti video su TikTok.

Siamo un paese profondamente moderato – persino nel senso deteriore – ma privo di rappresentanza di questo carattere fondamentale. Di conseguenza, non abbiamo più coscienza del nostro ruolo e peso geopolitici, e perfino sui bisogni più barbini ci dividiamo.

Questo smarrisce le persone, condannandole ad esprimere una fiducia già frustrata in partenza: votandoli, sono consapevole che non solo non mi ascolteranno, ma tradiranno in blocco le loro stesse promesse, che più che tali sono indirizzi vaguli, tremuli.

Come sono consapevole che le forze antisistema, andassero al governo, nulla potrebbero intrappolate come tonni nelle fitte maglie degli apparatchik, i boiardi fedeli a se stessi. E così sarà, brutto a dirsi, finché non verrà ripristinato non solo il Centro, ma anche il rapporto diretto fra elettori ed eletti. All’americana: non tieni fede agli impegni, prendi cantonate? A casa, e non farti più vedere.

Vediamo che la lunga diatriba fra proporzionale e maggioritario si risolve nell’imbarazzante paciugo col quale esprimeremo il prossimo parlamento, peraltro ridotto di 300 rappresentanti: casomai il destino della rappresentanza non fosse chiaro. Quando mai un senatore di Merano sarà sensibile ad istanze di Trepuzzi dov’è stato eletto?

Se esistesse o fosse ripristinata una trama di rapporti sociali, culturali ed economici cui la pandemia ha posto fine ma che già rantolava per i fatti suoi, e si tornasse ad una sana mediazione (l’orrido compromesso) allora si potrebbe sperare qualcosa di buono.

Ad esempio, l’istituzione di una commissione sanitaria realmente indipendente che davvero determini cosa diavolo è accaduto accertando le responsabilità dei singoli, non sarebbe una cattiva idea: una sana ricomposizione fra le scemenze dette e le atrocità accadute.

Una forza di centro, naturalmente punto di equilibrio, saprebbe implementarla. Anzi sarebbe costretta a farlo. Forse vale la pena costruirla in ambito extra-parlamentare, come suggerito a più riprese dal professor Alberto Contri.

Un’altra tua lezione che conservo gelosamente è che in politica le cose accadono non per esplosione, ma per implosione che apre vuoti. Il Centro non c’è, il che equivale a dire che non esiste la terza scelta, ma lo spazio culturale e politico sì.

Manca, questo sì, un’idea precisa e costruttiva del paese. Che non sia il semplice richiamo a vecchie dottrine sociali di cui gli aedi non hanno letto nemmeno due righe. Almeno prima si studino bene: si avrebbero sorprese e farebbero scoperte.

 


 

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