di Aldo Rocco Vitale

 

«Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite»: così San Paolo nella sua lettera ai Romani (13,1) esortava i suoi confratelli a rimanere subordinati alle autorità costituite evitando di degenerare in moti sobillatori o insurrezionali, poiché il Cristianesimo non consisteva in una dottrina rivoluzionaria di carattere politico, ma di carattere etico e spirituale.

Dinnanzi alla sempre valida prospettiva dell’Apostolo sembrerebbe allora che quanto accaduto durante la gestione pandemica, cioè la sottomissione della Chiesa – almeno di quella italiana – allo Stato, non possa rappresentare un problema, poiché perfettamente aderente al precetto paolino.

Durante la pandemia, infatti, la Chiesa, specialmente quella italiana, ha placidamente sostenuto le autorità politiche statali nell’emanazione dei provvedimenti di gestione della crisi sanitaria, perfino quando questi hanno compresso il diritto al culto costituzionalmente garantito dall’articolo 19 della Costituzione.

Gli esempi potrebbero essere molteplici e praticamente infiniti, ma su tutti si pensi alla chiusura delle chiese con il contestuale divieto di celebrare i riti cristiani e al divieto di compiere pellegrinaggi e ritiri in seguito all’emanazione dei primi DPCM del marzo 2020 con cui – tramite un fenomeno inedito nella storia dei rapporti tra Stato e Chiesa nel secondo dopoguerra – l’autorità governativa invadeva gli spazi normativi di competenza dell’autorità ecclesiastica, e quest’ultima – a sua volta – consentiva con un placet derivante dal suo iniziale contegno passivo divenuto ben presto sostegno attivo.

I profili problematici – soprattutto di carattere strettamente tecnico-giuridico, canonistico e costituzionalistico – sono stati già oggetto di studio e riflessione della più accorta dottrina, come si evince dalle note critiche e puntuali redatte dal Prof. Fabio Adernò nell’ambito delle specializzate riviste del settore, potendosi in questa sede trattare altri aspetti gravemente critici in considerazione della inconsueta situazione che la pandemia ha condotto con sé per i singoli credenti e per il cattolicesimo nella sua interezza.

Qui non è certo in discussione la prudenza – virtù morale fondativa del principio di precauzione – che le autorità ecclesiastiche hanno opportunamente utilizzato per evitare di aggravare la situazione dei contagi e dei relativi decessi, ma ben altro.

Se, infatti, le autorità ecclesiastiche – almeno quelle della Chiesa italiana – si fossero limitate all’adozione di atteggiamenti prudenziali, oggi probabilmente si tratterebbe d’altri meno spiacevoli argomenti.

Purtroppo, le suddette autorità ecclesiastiche hanno fatto ben altro, con gravi ripercussioni non soltanto sul piano giuridico, ma soprattutto in violazione degli stessi dettami teologici e morali della dottrina della Chiesa.

La questione è senza dubbio troppo lunga e complessa e merita di essere oggetto di numerose riflessioni che comunque non possono, ovviamente, essere interamente elencate, ma di cui si può tracciare il perimetro riassumendole in modo ovviamente non esaustivo.

Data la vastità delle tematiche, in questa sede si esamineranno soltanto la tutela della persona e del lavoro come espressione della sua dignità nel quadro dell’insegnamento della dottrina cattolica.

La tradizione cattolica, e in questo l’insegnamento della Chiesa è quanto mai solido ed esplicito, ha sempre tutelato la dignità della persona e quella del diritto al lavoro.

Non è un caso, del resto, che rinomati esponenti della cultura politica e giuridica cattolica abbiano dato, in quanto Padri costituenti, un fondamentale contributo nella stesura di quegli articoli della Costituzione italiana che si preoccupano di riconoscere e disciplinare, appunto, il diritto al lavoro come diritto fondamentale e strutturalmente appartenente alla tutela della persona.[1]

La persona, infatti, è il punto cardinale della dimensione morale di una comunità politica e di una convivenza giuridica, come riconosce lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica (n. 1700, n. 1780, n. 1926, n. 1929, n. 1944 ecc.).

La tutela della dignità umana, tra le varie modalità con cui può essere realizzata, può e deve essere riflessa nella tutela della dignità del lavoro, così da intendere l’una reciprocamente interconnessa con l’altra.

In tale direzione si muove, in modo quanto mai esplicito, l’insegnamento derivante dal Compendio di Dottrina Sociale della Chiesa che, infatti, al n. 271 chiarisce come «la persona è il metro della dignità del lavoro», e al n. 272 specifica che «il lavoro umano non soltanto procede dalla persona, ma è anche essenzialmente ordinato e finalizzato ad essa».

Insomma la tutela del lavoro è la tutela mediata della persona; la persona è l’orizzonte di senso della tutela del lavoro; il lavoro è teleologicamente e assiologicamente orientato alla tutela della persona.

Per converso: quando si viola, si limita, si comprime o, peggio, si sopprime il diritto al lavoro, inevitabilmente e consequenzialmente, si viola anche la persona umana.

Se i suddetti testi citati sono già sufficientemente chiari, altrettanto chiaro è il magistero, come, tra i tanti esempi possibili, si evince, ex plurimis, dalle parole di Giovanni Paolo II:«Il lavoro è un bene dell’uomo – è un bene della sua umanità -, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”. Senza questa considerazione non si può comprendere il significato della virtù della laboriosità, più particolarmente non si può comprendere perché la laboriosità dovrebbe essere una virtù: infatti, la virtù, come attitudine morale, è ciò per cui l’uomo diventa buono in quanto uomo» (Giovanni Paolo II, Laborem exercens, n. 2-9).

Durante la pandemia, invece, tramite quello strumento dalla dubbia giuridicità e dalla inequivoca illegittimità che è stato il green pass – sia nella sua versione originaria che in quella rafforzata – tutto ciò è stato dimenticato e messo da parte, come se la dottrina morale cattolica, almeno in tema di dignità del lavoro e di dignità della persona, fosse stata sospesa.

Addirittura, il più noto quotidiano cattolico italiano, ebbe a intestare la sua prima pagina del 15 ottobre 2021 con il tanto roboante quanto fasullo titolo “Un pass che libera”.

Considerando che il green pass, dei cui profili di illegittimità ho trattato per primo in Italia con ampiezza e per cui mi permetto di rinviare alla mia analisi apparsa su GiustiziaInsieme, non ha tutelato né il diritto alla salute, poiché questo sarebbe dovuto essere tutelato semmai dalla vaccinazione (qualora questa fosse stata in grado di bloccare i contagi, requisito essenziale di cui con tutta evidenza è stata manchevole fin dal suo esordio nell’inverno del 2021), né, a maggior ragione, il diritto al lavoro, poiché ha impedito di lavorare a quanti ne fossero sprovvisti tramite una aberrante subordinazione del diritto al lavoro come diritto fondamentale ad una specie di “concessione sanitaria” disposta dal Governo ben al di là dei suoi poteri costituzionalmente fissati,[2] occorre porsi, specialmente a mente fredda dopo quasi due anni, alcuni interrogativi per la comprensione di ciò che è accaduto in seno al mondo cattolico.

Da quando è possibile considerare la morale cattolica – come quella riguardante gli insegnamenti sulla dignità del lavoro – come parentetica e non più universalmente cogente? Da quando la morale cattolica si subordina agli eventi del mondo? Perché invece di pandemizzare la morale cattolica, non si è cercato di cattolicizzare le misure pandemiche?

Come mai mentre la chiesa cattolica italiana ha placidamente eseguito le disposizioni governative in tema di lotta alla pandemia, la chiesa cattolica statunitense ha impugnato, invece, gli analoghi provvedimenti dei governatori americani che ledevano, per esempio, il diritto al culto dei cattolici americani?

Come mai la Conferenza Episcopale Croata – a differenza di quella italiana – ha chiarito la legittimità morale di chi esprimeva riserve, dubbi e opposizioni nei confronti degli obblighi come il green pass?

Come mai la Conferenza Episcopale Italiana che così solerte è stata nello “scomunicare” chi si opponeva al green pass negli ambienti di lavoro ha utilizzato la modalità farisaica della doppia morale, non introducendo il green pass essa stessa per le attività relative all’esercizio del culto?

Il diritto al culto è forse sovraordinato al diritto al lavoro? Dove sta scritto? Chi lo ha deciso? In base a quali criteri?

Come mai il green pass che era “cattolicamente legittimo” per gli ambienti di lavoro non è stato adottato anche negli ambienti ecclesiastici e per le occasioni religiose cattoliche come le messe  e le altre cerimonie cattoliche (battesimi, comunioni, matrimoni, funerali ecc.), oltre che per tutta la vastissima galassia del mondo cattolico come oratori, circoli di animazione parrocchiale, lezioni di catechismo per giovani e adulti, gruppi di preghiera, associazioni di volontariato ecc. ecc.?

Come si spiega dal punto di vista morale e dottrinale tale ambiguità? E’ stata una semplice e banale svista, dovuta magari alla incapacità critica, morale e giuridica di parte della gerarchia cattolica, o, invece, è stato un vero e proprio atto doloso con cui una parte del clero italiano ha riservato per se stesso quello spazio di libertà che ha negato agli altri appoggiando quell’apartheid sanitaria che è stata biasimevolmente introdotta tramite il green pass?

Qualcuno risponderà mai ai suddetti quesiti? Quando – da parte della CEI – si compirà un autentico e profondo esame di coscienza per la sua sconsiderata politica di subordinazione dei principi cattolici e dei diritti naturali che il cattolicesimo difende per tradizione alle liberticide, antigiuridiche e antiscientifiche politiche pandemiche adottate dal Governo italiano?

Se un domani il green pass subisse una nuova ri-edizione, magari sotto forma di carbon pass per la gestione dell’emergenza climatica, il cattolicesimo incapperebbe nei medesimi passi falsi?

Gli errori compiuti in pandemia, da parte delle gerarchie cattoliche italiane, sono episodici e isolati o strutturati e seriali?

E’ possibile cominciare una riflessione serena e un dibattito intellettualmente onesto su questi temi? Quando ciò accadrà?

Nell’attesa che la coscienza della comunità cattolica giunga a maturazione, sembra di sentire, in conclusione, l’eco della saggezza di Nicolas Gomez Davila, le parole del quale si possono perfettamente considerare commisurate alla triste esperienza del catto-emergenzialismo pandemico: «L’obbedienza del cattolico si è tramutata in un’infinita docilità a tutti i venti del mondo».

 

Note:

[1] Per un dettagliato approfondimento del tema mi permetto di rinviare al mio Aldo Rocco Vitale, All’ombra del Covid-19. Guida critica e biogiuridica alla tragedia della pandemia, Il Cerchio, Rimini, 2022, pag. 176 e ss.

[2] In tal senso mi permetto di rinviare a Aldo Rocco Vitale, La pandemia tra la vocazione dello Stato di diritto e la tentazione dello Stato totalitario: elementi per una critica filosofico-giuridica, in Filodiritto.com, 20 settembre 2021.

 


Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente le opinioni del responsabile di questo blog. I contributi pubblicati su questo blog hanno il solo scopo di alimentare un civile e amichevole confronto volto ad approfondire la realtà.


 

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