di Mattia Spanò
A dieci minuti dalla mezzanotte del Venerdì Santo, mentre rientravo a casa, ho ricevuto un messaggio di un amico che potrebbe separarsi dalla moglie. Non è il primo, purtroppo, nelle ultime settimane.
L’ho potuto ascoltare passate le tre del mattino, appena arrivato. Si crede che le tre del mattino siano l’ora del diavolo, agli antipodi dell’ora della morte di Nostro Signore. Le tre del mattino del Venerdì Santo hanno, per certi versi, una valenza ancora maggiore.
Non scenderò nei dettagli perché non serve. Da sposato con figli, e figlio a mia volta di genitori separati, provo un acuto dolore ogni volta che vengo a sapere di simili vicende umane. Specie quando toccano persone care, che sono state e sono importanti – anche in-portanti, nel senso che in misura e densità diverse, mi accompagnano nel mistero di Dio.
Devo anticipare che quanto segue non può avere alcun fondamento teologico o biblico. Si tratta di semplici riflessioni personali brancolanti, senza alcuna pretesa di giustizia e correttezza.
C’è una frase di Cristo nel Vangelo che non manca di tornarmi spesso alla mente: “Senza di me, non potete far nulla”. Gesù non dice di assisterci, coadiuvarci, integrare le nostre meravigliose qualità, sostenerci. Non dice “arriva sin qui, poi facciamo il resto della strada insieme, finisco io”. È al contrario netto: il nulla è un’idea priva di gradazioni.
Il nulla è anche un’idea limite, difficilmente ammissibile e immaginabile dall’intelletto umano. Con una battuta di un altro amico che risponde a chi sostiene che dopo la morte ci sia il nulla: “Avete mai visto il nulla? Io no. Sapreste descriverlo? Come si può asserire l’esistenza di qualcosa che è niente?”.
Se qualcuno cerca prove della divinità e del passaggio reale di Cristo sulla terra, è in lacerti come “senza di me non potete far nulla” che a mio avviso si possono trovare. Sono parole asciutte come ossa calcinate, sottratte una volta per tutte alle ombre del linguaggio, impossibili nel senso tolte all’idea stessa di possibilità umana.
In qualche maniera – mi rendo conto di esprimere un concetto forte e impreciso – la condizione naturale del cristiano è quella della disperazione. C’è infatti almeno una forma di disperazione da custodire: la disperazione di sé. Maledetto l’uomo che confida nell’uomo.
Queste catastrofi personali non hanno, nelle vite di ognuno di noi, un impatto diverso dalla pandemia o dalla guerra. Al contrario, molto più grave. La separazione dalla sposa o dallo sposo, il dolore per la sorte dei figli, il senso di vita perduta o trascorsa in un inganno sono pene lunghe, scarnificanti, peggiori in alcuni casi della morte stessa. Spesso si assiste impotenti a spettacoli di impensabile, gratuita crudeltà da parte di chi si è teneramente amato.
Non mancano pii fervorini e una pietà pelosa da parte di amici e conoscenti, specie credenti. Avendo attraversato questo lago ghiacciato, posso dire che si provano momenti di desolazione e abbandono difficilmente descrivibili a parole. Ci si sente feriti, umiliati, annientati, immersi in un’oscurità piena di spettri di ciò che di buono sarebbe potuto essere e non sarà.
Le mie vie non sono le vostre vie, i miei pensieri non sono i vostri pensieri. Quando rivela a Mosè il proprio Nome, prorompendo da un roveto in fiamme che non si consuma – spine e fuoco senza il conforto della cenere, cioè la cessazione della pena…un’immagine quasi infernale – dice: io sono Colui che sono.
Il carattere estremo, regale, immutabile del linguaggio di Dio non deve essere appena preso come genius poetico. Gesù fa una morte terribile, e terribilmente risorge. Il punto in cui forma e sostanza si fondono, e distinguerle non è possibile (lo è mai stato?).
La Pesach è il momento in cui la distinzione fra l’annichilimento della condizione umana e la sua salvezza eterna si ricuce. Non sono l’uno il contrario dell’altra. Sono la stessa cosa, perché al di fuori di Dio che le forgia insieme con forza e potenza incommensurabili non esiste nulla.
Avvicinandomi inesorabilmente alla mia morte – alla fine del mondo per me – guardo con disillusione a parole come felicità, realizzazione di sé, desiderio e simili concetti positivi. Non li disprezzo, ma non li coltivo con lena particolare.
Una cosa m’interessa: la salvezza a qualsiasi costo. La terribile salvezza di un Dio che tutto può, anche permettere la distruzione dell’uomo per restituirlo alla sua vera natura immortale, traendolo dal fango una seconda volta, finalmente mondo.
La condizione di questi amici e amiche non la auguro ad un nemico. Anche chi non la vivesse farà i conti con la stessa materia oscura, magari in altra forma. Nessuno scampa. Buona terribile Pasqua di Resurrezione a loro.
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Separazioni e divorzi sono sciagure di sicuro per credenti e non ma non le metterei sullo stesso piano dell’angoscia per la sorte dei figli; così come la regalità filantropica del Dio che atterra e suscita può essere quello cui ci si aggrappa nella tempesta della vita ma deve convivere con la regalità aliena del Dio di Giobbe che moglie e figli toglie e non restituisce ma sostituisce con altri; il Golgota, del divorzio o della salute dei figli o della propria personale estinzione, è difficile per tutti, anche per chi ha fede, vi auguro di conservarla. Buona Pasqua
Buona Pasqua!