Il sito della Fraternità San Carlo, nel giorno dei funerali di don Fabio Baroncini, figura di spicco di Comunione e Liberazione, ha pubblicato alcuni stralci della sua testimonianza ai seminaristi della casa di formazione di via Boccea, tenuta il 19 marzo 2016.

 

Don Fabio Baroncini
Don Fabio Baroncini (a sinistra)

 

Vi ringrazio dell’invito che per la prima volta mi permette di essere qui a Boccea e conoscere questa realtà. Finalmente oggi l’ho vista! E vi direi che val la pena di esserci.  È un bel posto. Questo vostro invito mi ha permesso di ripercorrere tutta la mia storia personale. Sono arrivato quest’anno a cinquant’anni di sacerdozio. Tre mesi fa è morta mia mamma e ho ripensato a tutti i suoi insegnamenti. Mi aveva insegnato il “Ti adoro” del mattino, che è bellissimo. “Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano, conservato in questa notte”. È affermare che l’atto che io faccio oggi è il riconoscimento pieno della bontà del Signore.

Innanzitutto devo ringraziare perché Dio è sempre stato un’evidenza della mia vita. Non è mai stato problematico il mio aderire a Dio. Non so perché sia andata così. Sono di tradizione valtellinese. Mio padre e mia madre erano due valtellinesi. Sono stato lì fino all’età di quattro anni poi ci siamo spostati a Pescarenico. Ho fatto ragioneria e dopo sono andato “a prete”. Come mai? Mah, per la verità non lo so ancora oggi. Se uno si chiede, dopo vent’anni di matrimonio, perché ha sposato quella donna, non lo saprebbe dire. Se voi mi chiedete perché sono andato “a prete”, non lo saprei dire. So soltanto che io volevo andare “a prete”.

L’evidenza di Dio nella mia vita era motivata da mia nonna. Mi portava a raccogliere le patate con lo zappino. Io ero piccolino, avevo tre anni. Bisognava stare attenti a non sbucciare la patata. Quello che mi colpiva era che, quando veniva su un “patatone”, mia nonna diceva sempre: “Guarda com’è buono il Signore!”. L’idea di Dio che provvede al bene personale è entrata nella mia vita grazie a questa donna. Si alzava alle quattro per andare a messa. Alle cinque svegliava il marito e i figli e andavano a lavorare nei campi. Vita grama, vita dura, ma vita sana. Io, con gli occhi dei tre anni, vedevo questa gente che era contenta di stare al mondo.

L’evidenza di Dio è arrivata anche grazie a mio padre che, dal punto di vista della concezione della vita, non era un bravo cristiano. Era un alpino del battaglione Morbegno. Aveva fatto sette anni di guerra, dall’Africa all’Albania e alla Russia. Aveva portato a casa la pelle. Come cultura, era un socialista. “Gli uomini veri sono quelli che lavorano, mica come i preti che non fanno nulla tutto il giorno”. Questo era il suo ritornello. Ho sempre assistito la domenica a questa scena. Alle nove mia madre diceva a mio padre “Vai a messa!”. E lui: “Eh, vado…”. Alle nove mezza: “Sei ancora qui?”. “Non mi stufare, ti ho detto che vado!”. Alle dieci e mio padre era ancora lì. Poi arrivava l’ultimo richiamo di madre e allora andava. Nella chiesa di Pescarenico c’erano grandi colonne e si pagava la sedia, 5 lire. Lui la pagava ma poi si metteva dietro la colonna così non vedeva l’altare. Quando alla una mangiavamo insieme, tutte le domeniche c’era la stessa scena. Mia madre gli chiedeva “Chi ha detto messa?”. E lui: “Cosa vuoi che sappia io chi ha detto messa”. “Ma cos’ha detto il prete in predica?”. “I solit bal – le solite balle”. La sua posizione riguardo a Dio era molto semplice: “Il Padre eterno, non si può sapere se esista. Ma per adesso è meglio tenerselo buono”.

La mia fede è nata da questo. Mia madre ci teneva che io andassi all’oratorio. Poi sono entrato nell’Azione Cattolica. Arrivato ai 14 anni vado alle superiori. Il mio coadiutore mi chiama e mi fa: “Ho sentito che l’Azione Cattolica esiste anche alle superiori, si chiama Gioventù Studentesca, è fatta da un prete strano ma è molto bravo. Vai a cercarli”. Ha fatto l’errore storico della sua vita. Allora vado a cercare quelli di Gs e chiedo ad alcuni come posso farvi parte: “Vedi questi biglietti del cinema? Vai a venderli a tuoi compagni”. E così sono diventato di Gs.

Una volta venne Giussani a Varese a parlare: “Siamo stufi di associazioni nella Chiesa. Essere cristiani è un movimento!”. A me avevano insegnato a dire sempre la mia. Allora ho alzato la mano: “Mi scusi reverendo, – perché io ero ben educato – io sono dell’Azione Cattolica (che è un’associazione) e il mio prete mi ha detto di venire qui. Lei parla di movimento, ma di cosa si tratta?”. Una parentesi. Mia mamma mi aveva insegnato ad essere umile dicendomi che ero scemo. “Vedi che sei scemo?”, diceva. Così io avevo l’impressione di essere veramente scemo. E Giussani quella volta disse: “Chi è quello lì?”. Io mi sono nascosto dietro le spalle degli altri dicendo tra me e me, ecco ci siamo, mi darà dello scemo anche lui. E Giussani invece disse al prete che guidava l’incontro: “Guarda, ti raccomando, curalo bene quel ragazzo lì perché è intelligente”. A me nessuno mi aveva mai detto che ero intelligente. Allora ho pensato: “Io vado dietro a questo qui”. Così si è definita la mia appartenenza a Gioventù studentesca.

C’è un punto di evidenza che si collega alla questione dell’andare “a prete”. A Morbegno, nella casa dove vivevo c’era un pergolato con l’uva americana (che adesso chiamano “fragolino”). Una volta quando avevo sette anni, sotto quel pergolato dissi un rosario per andare “a prete”. La mia vocazione non è stata per niente l’esito di una riflessione, di una misura, di un calcolo. Con quel rosario mi sono rivolto a Maria – che è la più simpatica della compagnia – perché si avverasse quella possibilità. Di fatto il Signore è stato buono e mi ha ascoltato. Poi c’era l’ostacolo di mia madre e mio padre – io ero figlio unico – ma non hanno detto niente, perché avevo “lavorato” bene con mia madre che così ha convinto poi mio padre.

Ho fatto cinque anni di seminario molto belli. La vigilia dell’ordinazione ero a Rho a fare gli esercizi spirituali. Una sera – stavamo aspettando di essere ricevuti dal rettore – io andavo in giro a testa alta dicendo: “Signore, io voglio diventare prete. Se tu non vuoi, c’è un modo tranquillo e sereno, mi fai restar qui morto stecchito”. Non sono rimasto secco e allora sono diventato prete. Allora sono entrato da mons. Citterio e gli ho detto: “Senta eccellenza, stasera io ho bisogno di sentire una sola cosa: il mio vescovo mi vuole prete, sì o no? Se lei pensa che non è il caso, io ho già pronta la valigia, vado a casa, ho il diploma di ragioniere, troverò una brava ragazza e mi sposerò”. Ha fatto un salto sulla sedia. “No, no ti vogliamo prete!”. Siamo andati in duomo e sono diventato prete che ero rimbambito, dopo sette giorni di ritiro avevo un sonno della miseria.

Devo ringraziare perché la vocazione è venuta fuori così, è un dono gratuito di Dio. Era una cosa che volevo fare ma non so perché. Per questo dicevo un’Ave Maria tutte le sere, perché mi aiutasse a capire. Dopo cinquant’anni di prete, posso dire che mi è andata bene. E fare il prete è conveniente. Lo dico sempre ai ragazzi: “Guardate che io una donna l’ho fatta felice, quella che non ho sposato!” […].

Oggi essere cristiani vuol dire, nel migliore dei casi, dare un certo tempo ai sacramenti, alle preghiere, ma è sempre un tempo che si colloca a fianco dell’esperienza umana. Mentre la vocazione è vivere tutta la vita come una responsabilità, come una risposta. Come dice la frase di san Paolo che ho usato per la mia ordinazione sacerdotale e sulla quale ho meditato molto: In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto (Ef 1, 4-6). Vi auguro di vivere sempre con questa coscienza, cioè che ogni gesto che fate nella vita sia funzionale al rapporto con Gesù Cristo, serva alla conoscenza di Gesù Cristo.

 

 

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