di Giovanna Ognibeni
Tanto per non prenderla troppo alla lontana: l’iroso Achille rimane sordo alle suppliche del morente Ettore e lo inchioda a terra, vedendo le armi di Patroclo indossate da colui che l’aveva ucciso; in un poema posteriore di circa settecento anni, il pio Enea (quindi non umorale come il Pelide) fa lo stesso nel vedere il barbaglio della corazza di Pallante che Turno porta come trofeo: si fa prendere dai cinque minuti e trafigge a dovere il malcapitato.
Passano più o meno altri 14 secoli ed ecco ci troviamo nel ducato di Carlo il Temerario, nella Corte più raffinata d’Europa, nella Borgogna fastosa ed elegante dove tutto è prezioso e rarefatto come nelle miniature del Libro d’Ore del Duca di Berry. Il vivere della nobiltà è esso stesso un rito, siamo all’apogeo, e al tramonto, di una civiltà squisita. Eppure, quegli stessi nobili in qualche occasione non disdegnano di assistere a rozzi duelli giudiziari, come quello tra due poveri diavoli di borghesi, narratoci da un cronista: rivestiti di cuoio ed unti debitamente si scontrano con pugni e bastoni, senza alcun’arte e maestria con efferatezze che non cedono in nulla, forse i modi sono anche più splatter, ad un ‘Django Unchained’. Il perdente viene impiccato morente. I nobili alla fine si vergognano un po’ per essersi lasciati andare e riparano assistendo ad un duello tra nobili, comme il faut.
Ancora barbarie insomma.
Eppure, a ben vedere nei tre racconti emerge visibile il sentimento che si è ecceduto oltre i limiti della giustizia che regola i rapporti tra gli uomini. Omero e Virgilio danno le ragioni degli eccessi dei loro eroi: sono i sentimenti feriti dell’amore e dell’amicizia che spiegano e rendono meno esecrabile la loro crudeltà. Così restituiscono loro valore e grandezza.
Oggi no.
Oggi non c’è spazio per un dio, per uno Zeus che imponga all’infuriato Achille di rispettare le leggi cui gli uomini tutti devono sottostare. Oggi viviamo nell’età dell’oro in cui ci si pente, con la insostenibile leggerezza dell’insipienza, delle colpe, vere o presunte, di altri tempi, di altre generazioni, di Istituzioni (vince con molte lunghezze la Chiesa), ma delle proprie, personali mancanze, viltà ecc. no questo mai.
Ed allora è tutto un maramaldeggiare sugli unici oggetti disponibili, i no-vax, categoria esecrabile, a prescindere avrebbe detto Totò, les déplorables. Del resto, parliamoci chiaro: oggi non si può odiare più nessuno, non gli immigrati, non gli ebrei, men che meno gli islamici, i gay, – e questo pone dei problemi operativi, visto che acronimi e sigle crescono indefinitamente -, per fortuna sono arrivati i no-vax, su cui si possono legittimamente invocare il confino, la morte lenta e dolorosa, le cannonate e via farneticando.
Ed i poveri nostri Ettori e Turni hanno un bel supplicare di essere ascoltati: dopo aver fatto l’indispensabile personale autodafé sui vaccini – sono già vaccinati o perlomeno hanno parenti e cari amici che lo sono – si affannano ad avanzare argomentazioni distinguo financo dubbi. La spada cade inesorabile su di loro e se per avventura non possono essere catalogati come terrapiattisti, perché si chiamano Agamben o Cacciari (una volta Premiate Ditte della Sinistra), allora vengono dileggiati come intellettuali onanisti: ohibò parlare di libertà, diritti, stato d’eccezione? Qui signora mia, ne va della nostra pelle, e questo, sempre signora mia, lo dice la SCIENZA. Senza se e senza ma.
Barbarie senza alcun argine. E sono i maitres à penser (mai termine fu più inadeguato) di oggi, i giornalisti, gli scribi che, deposte le spade dalle else incrostate di gemme, tuttavia difficili da maneggiare, si sono armati di robuste e nodose clave, con le quali menano fendenti con ogni sorta di trucchi sleali.
Spesso sono figuri presi di peso dalle ingiallite pagine delle assemblee degli anni ’70, katanga che ambirebbero ad essere promossi a Guardie Rosse, stravaccati stancamente su poltroncine, annoiati, – ma d’altronde pecunia non olet – indossando preferibilmente almeno un capo in pelle, barba e capelli stazzonati perché non hanno tempo da dedicare a simili sciocchezze. L’unica cosa che non hanno è l’attenuante dell’età.
Sono i padroni del discorso e servi dei padroni del Vapore.
Stupisce il fatto che, seppure possano procedere maestosamente come navi da crociera strombazzanti le loro sirene nella laguna del dibattito pubblico, siano così incattiviti. Forse che segretamente temano di svegliarsi e scoprire di trovarsi anziché nella Laguna incagliati nel Canale di Suez? Oppure man mano che la rocciosa realtà emerge dalle acque abbiano come il sospetto di essere stati inoculati a tutto campo? E per raggiungere il mezzo gaudio bisogna che il male sia comune?
Ma l’arte di infierire sul vinto (almeno tale mediaticamente) è largamente praticata anche in campo cattolico tradizionalista. Parlo di questo perché i progressisti, whatever it means, sono vincolati perinde ac cadaver al verbo argentino.
Mentre nel dibattito duello cortese su questioni fortemente impegnanti la libertà e la ragione dei partecipanti, ad esempio Concilio Vaticano II e dintorni, si sono sempre seguite le regole del leale contender, l’onore delle armi il rispetto dell’avversario (anche nei duelli medievali sopra ricordati al termine non era raro che il vincitore invitasse a banchetto il vinto), basta agitare il drappo del vaccino e voilà si dismettono appunto le spade e si impugnano i nodosi randelli di cui sopra con cui dare botte da orbi.
Nel mio vagabondare tra dibattiti, lettere, risposte, risposte a risposte, non mi è mai accaduto, e dico mai (certamente nei limiti del mio limitato sondaggio), che da parte dei Buoni e dei Ragionevoli e Aperti e cioè si-vax , alla fine dell’argomentazione non sia saltato fuori, in cauda venenum, un commentino agro sulla credibilità o sull’assennatezza dell’avversario. Un po’come chi dicesse battendo la mano sulla spalla dell’altro con bonomia: ”interessante quello che dici, ma suvvia dovresti proprio fare qualcosa per questa forfora”.
E purtuttavia tale sottile perversione non mi sembra una spiegazione esaustiva di un tale prevaricare e, se non voglio darmi al sospetto di interessi economici o di prestigio, mi resta solo l’ipotesi di un cedimento della coscienza al timor panico, alla paura irragionevole, quella stessa che fece anteporre al comandante Schettino, nella sua immacolata e charmante divisa di capitano della nave, non solo la sua vita fisica ma anche la sua carriera, la sua reputazione al destino delle persone (i morti furono solamente 32 non certo per il suo tardivo e maldestro intervento).
Tra l’altro non occorre neppure rifarsi a categorie o virtù cristiane, oggi così improbabili, già l’etica pagana riconosceva le virtù, ad esempio la magnanimità, il rispetto e il coraggio.
Uno il coraggio non se lo può dare diceva Don Abbondio, oggi così gloriosamente riscattato da tantissimi suoi epigoni giustamente rivendicanti l’animus cristiano del loro agire.
Parliamo pure con benevolenza di ipocondria e paranoia: una volta quando si parlava di peccati e non di fragilità esistenziali la si sarebbe chiamata codardia.
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