Come, in nome della libertà, è oggi possibile nullificare – per diritto – se stessi e il prossimo. Un articolo di Giorgia Brambilla e Pierluigi Pavone sulle basi filosofiche del diritto al suicidio.

 

AVE, CAESAR, MORITURI TE SALUTANT

L’Ave, Caesar, morituri te salutant indirizzato dai gladiatori a Vitellio, nella visione artistica di Jean-Léon Gérôme (1859)

 

Nel testo di Karl Binding, specialista di Diritto penale, e di Alfred Hoche, professore di Medicina, pubblicato nel 1920, dal titolo “Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens”, ovvero “L’autorizzazione dell’annientamento della vita indegna di essere vissuta”, per spiegare l’impunibilità del suicidio, gli autori lo concepiscono come espressione di sovranità dell’uomo vivente sulla propria esistenza. Il suicidio non può essere compreso tra i delitti e, d’altra parte, non può nemmeno essere considerato come un atto giuridicamente indifferente. La sovranità del vivente su se stesso configura, allora, come la decisione sovrana sullo stato di eccezione, una soglia di indiscernibilità fra esteriorità e interiorità che l’ordinamento giuridico non può né escludere né includere, né vietare né permettere: l’ordinamento giuridico sopporta l’atto malgrado le sue sensibili conseguenze su di sé. Esso non ritiene di avere il potere di proibirlo.

Da questa particolare sovranità dell’uomo sulla propria esistenza, Binding e Hoche fanno derivare la necessità di autorizzare l’annientamento della “vita indegna di essere vissuta”. Tale concetto è per gli autori essenziale, perché permette loro di trovare una risposta al quesito giuridico che intendono porre: l’impunità dell’annientamento della vita deve restare limitato al suicidio, oppure deve essere estesa all’uccisione di terzi? Esistono vite umane che hanno perduto a tal punto la qualità di bene giuridico che la loro prosecuzione, tanto per il portatore della vita tanto per la società, ha altrettanto durevolmente perduto ogni valore?

Il concetto di “vita senza valore” o “indegna di essere vissuta” si applica innanzitutto agli individui detti “incurabilmente perduti” e che, secondo Binding, in piena coscienza della loro condizione desiderano la liberazione (“erlösung”). Che l’eutanasia fosse chiamata “gnadentod”, cioè “morte per grazia”, “morte pietosa” – termine che trae origine dal coltello a lama corta chiamato “misericordia” con cui un tempo si metteva fine ai patimenti dei moribondi – è l’inevitabile esito, secondo l’eugenista italiano Enrico Morselli, dell’inversione concettuale che fa della stessa vittima il beneficiario della sua soppressione. Non a caso, il libro immediatamente successivo al testo di Binding e Hoche ha per titolo “Die Erlösung der Menschheit vom Elend” (“La liberazione dell’umanità dalla sofferenza”). Più problematica è la questione legata agli “idioti incurabili” (così definiti), tanto nel caso in cui siano nati tali, quanto nel caso in cui lo siano diventati nell’ultima fase della loro vita. Da una parte, non vi è alcun constatabile consenso in loro alla morte, dall’altra la loro uccisione non urta contro alcuna volontà di vivere che debba essere superata: però, chi decide? L’idea è che l’iniziativa spetti al malato stesso e, laddove egli non sia in grado di farlo, spetti a un medico o a un parente stretto, e che la decisione ultima competa a una commissione statale composta da un medico, uno psichiatra e un giurista.

Tutto questo, che richiama da vicino l’ideologia nazista e eugenetica in generale, è oggetto di dibattito e legislazione nelle attuali democrazie liberali. In effetti, la legittimazione giuridica al suicidio per colui che giudica se stesso indegno di vivere e la legittimazione alla uccisione di terzi, giudicati indegni secondo criteri simili sono di impronta liberale. Lo Stato non interviene a fronte del diritto alla libertà dell’individuo, perché tale diritto naturale è un limite rispetto a quello positivo. Tuttavia, due aspetti fondamentali meritano di essere precisati e puntualizzati.

Il primo fa riferimento al fatto che, nella misura in cui questo presunto diritto di autodeterminazione è stato rivendicato e politicamente riconosciuto, la licenza a sopprimere se stessi è sempre stata estesa anche a legittimare la soppressione altrui: su se stessi e sugli altri è stato applicato un identico criterio di dignità della vita. Arrogo a me stesso il principio di autodeterminarmi, fino a suicidarmi, in virtù della percezione e del giudizio di “vita indegna di essere vissuta”; per automatismo politico, se applico a me stesso tale criterio, dovrò legittimare il potere sovrano a fare altrettanto nei confronti di chi, per molteplici motivi, non ha preventivamente espresso il proprio parere sul personale destino e trattamento medico. A molti, anche in ambito cattolico, sembra che l’unico limite a tale potere sovrano sia di rivendicare su se stessi la decisione, depotenziando così la possibilità che altri si esprimano sulla nostra persona. In realtà, è una falsa e pericolosa strategia. Chi vuole depotenziare il potere sovrano, attribuendo a se stesso l’arbitrio e la licenza di giudizio sulla propria vita e dignità – vale a dire, legittimando il suicidio o eutanasia attiva, ma negando la possibilità dell’eutanasia passiva – si pone in verità, sulla stessa linea di rivendicazione anarchica.

Il secondo punto, altrettanto interessante, riguarda il fatto che nella tradizione liberale classica è assente un tale presunto diritto di auto-determinazione illimitata e assoluta. Anzi, è bene notare l’assenza totale di un tale concetto di potere sovrano arbitrario in tutto il pensiero occidentale, in cui pure si riscontrano molteplici analisi circa la legittimità o meno del suicidio. Tali posizioni teoriche che affrontano direttamente il tema, come possibilità, diritto, dovere, desiderio di togliersi la vita in modo autonomo e indipendente, sono riconducibili, ad avviso di chi scrive, al numero di quattro. E in nessuna di queste tradizioni, nella loro formulazione classica, il suicidio è stato interpretato come principio di autodeterminazione. Neppure nell’unica – cioè lo Stoicismo – che ne riconosce la legittimità. Infatti, l’unica dottrina filosofica che ha legittimato il suicidio, ovvero lo Stoicismo, lo ha fatto non sul piano giuridico, bensì su un “senso di dovere”, il cui presupposto era un determinismo razionale e panteistico. Per lo stoico, il suicidio non risponde affatto ad un arbitrio del desiderio, ma al dovere di rispondere attivamente alla disposizione che il destino razionale pone davanti, esercitando in ogni ambito una razionale e saggia imperturbabilità (apathia). Il panteismo razionale e il determinismo cosmico sono il presupposto per l’accettazione del suicidio come eventualità, qualora sia impossibile compiere il proprio retto dovere o qualora questo sia il comando dell’autorità (come nel caso di Nerone e Seneca). Opposta a questa visione panteistica, ottimistica e razionale dell’universo, è quella di Schopenhauer, che è vissuto più di duemila anni dopo la fondazione dello Stoicismo. Dei filosofici occidentali è colui che maggiormente concede spazio e valore alla visione orientale, decisamente opposta a quella classica dei Greci. Per il greco – come per il cristiano – il mondo è reale, buono, razionale, logico, dipendente ad un principio divino (al di là se si tratti di un principio immanente o di un Dio come descritto da Platone o Aristotele o dalla tradizione biblica). La visione orientale è diametralmente opposta: tutto ciò che esiste è una illusione, effetto colpevole del non dominio del desiderio e causa del dolore universale. Se per Aristotele il principio di tutto è Dio, in quanto Motore Immobile, se per lo scienziato ateo il principio dell’universo sono le leggi razionali e comprensibili che determinano ogni cosa, se per il Cristiano in Principio è il Logos, per Schopenhauer in principio è il Nulla, inteso come indeterminazione anarchica del desiderio. Coerentemente rispetto alla risposta buddhista, se la volontà di vivere genera dolore, la via di liberazione non potrà che essere la nullificazione ascetica di ogni desiderio. Anche in questo caso, la delegittimazione al suicidio non viene affrontata sul piano giuridico, quanto su quello esistenziale, come illusoria soppressione del desiderio e quindi del dolore.

Tra queste due posizioni, nel pensiero occidentale si sono avvicendate altre due tesi: quella di tradizione cattolica e quella di tradizione liberale. A differenza delle prime due, queste ultime si sono confrontate sul piano giuridico, molto in sintonia col dibattito attuale. Nella loro formulazione classica, entrambe, tuttavia, hanno negato la legittimazione al suicidio. Il punto interessante è che è stato fatto in nome della libertà. Si è ravvisato, cioè nella rivendicazione all’arbitrio di potere su se stessi e a maggior ragione su altri, non un atto libero, bensì un processo di volontarismo anarchico, il cui presupposto e, allo stesso tempo, il cui effetto è la nullificazione della persona: la considerazione dell’essenza umana come una assoluta e continua indeterminazione (nulla). Questa tesi ha come sua matrice l’idea che il principio sia il volontarismo anarchico e indeterminato che la tradizione protestante ha prima pensato teologicamente (Dio come volontà incondizionata separata da qualsiasi ragionevolezza), poi politicamente (il potere sovrano come nel positivismo giuridico di Hobbes), poi individualisticamente (il potere sovrano che il singolo rivendica nei confronti della propria persona, della propria vita, della propria essenza).

È bene, infatti, tener presente che la tradizione giuridica liberale, cioè anglosassone di ispirazione protestante – per quanto poi abbia offerto i presupposti per lo sviluppo contemporaneo – non è discorde dalle conclusioni cattoliche circa la non legittimità dei suicidio. Locke – rispetto alla visione medievale – riconosce che tra gli uomini esiste una alterità e estraneità reciproca, che lo stato non è un prodotto naturale ma frutto di un contratto sociale, che gli uomini, per evidenza razionale sono in grado di cogliere e riconoscere reciprocamente l’esistenza di diritti naturali inalienabili: vita, libertà, ricerca della felicità, proprietà privata mediata dal lavoro. Il concetto di inalienabilità determina che il potere sovrano, nel suo esercizio e nelle sue leggi ha come limite proprio quei diritti che non dipendono dalle leggi poste, bensì sono precedenti, appunto naturali, cioè pre-politici, esistenti ancor prima che l’uomo diventasse cittadino ed entrasse in società. Al concetto di inalienabilità è legato quello di indisponibilità. Vale a dire, ogni persona che liberamente può disporre di sé, della sua felicità, è fautore del proprio destino e del proprio successo economico e sociale, non ha la licenza di auto-distruggersi. Locke distingue la libertà come esercizio ordinato, tutela e rivendicazione dei diritti individuali, dalla anarchica licenza, pur riconoscendo al potere sovrano il diritto di punire – anche con la morte – chi viola i beni altrui e ammettendo lo stato di guerra tra la propria persona e chiunque abbia anche solo l’intenzione di subordinarla alla propria arbitraria volontà.

Nel dibattito giuridico contemporaneo si scinde, al contrario, sempre più l’inalienabilità del diritto alla vita da quello di indisponibilità, affermando che da un lato il diritto alla vita è individuale e inalienabile ad altri, dall’altro è disponibile in senso anarchico e assoluto, rispetto a se stessi. Nella giurisprudenza liberale classica si riconosce un ordine naturale e razionale di interrelazione degli stessi diritti. Il diritto alla libertà è distinto da quello di licenza e contemporaneamente è successivo a quello alla vita.

Attualmente, invece, il diritto alla libertà, inteso come anarchia, precede quello alla vita. Questo ha una doppia conseguenza giuridica: da una parte il diritto alla libertà di autodeterminazione della donna diviene prioritario rispetto a quello alla vita del nascituro, come nel caso della legalizzazione dell’aborto; d’altra parte, il diritto alla libertà come anarchia di autodeterminazione diviene fondativo persino nei confronti del proprio diritto alla vita. Infatti, il diritto alla vita diventa subordinato rispetto all’indeterminazione assoluta di licenza nei confronti di se medesimi. A sua volta, questo presupposto che vede nell’indeterminazione la matrice originaria di ogni realtà, la cui prima espressione teologica – che precede lo stesso volontarismo luterano – si riscontra nella Cabala, offre anche il presupposto antropologico di ridefinire la persona come essenza non data, su cui quindi il potere sovrano può legiferare, esprimendo il giudizio (positivo o negativo) sulla legittimità a vivere.

Nelle dittature il criterio era l’ideologia, in virtù della quale, dal tempo dei giacobini e della nefasta Rivoluzione Francese, colui che non si sottometteva era annoverato e ucciso (senza compiere omicidio) come nemico del popolo. Nelle democrazie attuali, il criterio è il nulla dell’essenza umana, su cui tutti rivendicano l’arbitrio di giudizio. Da un lato, il potere politico non interviene sulla decisione individuale di suicidarsi e offre anzi spazi giuridici e medici di applicazione decisionale: si auto-limita, nella misura in cui il cittadino vuole togliersi la vita, per un suo individuale arbitrio e criterio di vita indegna di essere vissuta. D’altra parte, non si limita quando deve prendere decisione sulla vita del cittadino, nella misura in cui questa sia stata giudicata indegna da quello stesso potere, in virtù dell’identico criterio di dignità.

Paradossalmente, la rivendicazione alla legittimità al suicidio, in nome di un potere libero e sovrano su se stessi, è la breccia per determinare un sistema politico, in cui il potere legislativo decide – democraticamente – la legittimità a vivere di ogni cittadino.

 

 

Pierluigi Pavone insegna Filosofia presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. È Dottore di Ricerca in Storia dell’Europa (Università Europea di Roma), ha ottenuto il Dottorato pontificio in Filosofia (Ateneo Pontificio Regina Apostolorum), dopo la Licenza (Università Pontificia Gregoriana) e la Laurea quadriennale (Università degli studi di Pavia) e ha una Laurea magistrale in Scienze Storico-Religiose (Università degli studi Sapienza, Roma). Tra le sue pubblicazioni, si ricorda: Politica, Messianismo, Moneta. La sfida del capitalismo democratico alla Dottrina Sociale della Chiesa (Roma, 2010); Contro gli Stoici. Cristo, Socrate, Buddha (Roma, 2011); Fede, Speranza, Carità. Tre meditazioni filosofiche sulle virtù teologali (Roma, 2015); L’età spirituale e l’uomo divino. Contro la falsa eredità moderna di Gioacchino da Fiore, (Napoli, 2016). Si occupa di Gnosi e contro-Chiesa e ha come ambiti di ricerca la Filosofia politica e la Filosofia della storia.

Recapito per la corrispondenza: pierluigi.pavone@gmail.com

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