Figliol prodigo, Rembrandt
Figliol prodigo, Rembrandt

 

IV Domenica di Quaresima (Anno C)

(Gs 5,9a.10-12; Sal 33 (34); 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32)

 

 

di Alberto Strumia

 

Le letture di queste domeniche, e in modo particolare il Vangelo, ci offrono una vera e propria catechesi quaresimale, spiegandoci in sequenza, l’una dopo l’altra i contenuti fondamentali della dottrina cristiana cattolica, che ci consentono di apprezzarne tutto il valore che essa contiene per la nostra vita, per la cultura e la civiltà dell’umanità intera.

Domenica scorsa si è parlato del “peccato originale” che ereditiamo tutti allo stesso modo, come condizione di partenza della nostra esistenza, senza averlo commesso individualmente, ma come peccato dell’umanità intera, presente originariamente nei progenitori.

Oggi, nel Vangelo, si parla del “peccato attuale”, che è personale di ciascuno, dipendendo direttamente dalla libera volontà di chi lo commette. E si parla del “perdono”, che non si limita a condonare l’errore del peccatore, ma “ripara” in lui la dignità perduta nel rimettere la “colpa” di colui che la riconosce con il pentimento e la “pena” eterna che ne deriva. Tutto questo è descritto, punto per punto, da Gesù con una delle Sue “parabole”, che è divenuta tra le più famose, la parabola del “figlio prodigo”. In questa parabola la “casa” e la “famiglia” che la abita rappresentano, in qualche modo la Chiesa.

La Chiesa, come “famiglia” storica, terrena (la “Chiesa” che un tempo veniva detta “militante”, perché in pieno combattimento, con il demonio, nella storia). La Chiesa, nella condizione terrena, dalla quale ci si può anche liberamente allontanare, come il figlio prodigo della parabola che, ingannandosi, pensa di trovare altrove il modo migliore per vivere l’esistenza. San Giovanni Paolo II, nell’enciclica Dives in misericordia, riconosce in questa descrizione la “parabola” della storia dell’uomo moderno e contemporaneo. Questo figlio, come quest’umanità della quale anche noi oggi ci troviamo a fare parte, ha avuto per diritto di appartenenza alla famiglia cristiana, la sua parte di patrimonio materiale, culturale, storico, esistenziale («“Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze»), e l’ha portata con sé fuori dalla casa, al di fuori del suo naturale alveo («partì per un paese lontano»), evitando accuratamente di amministrala bene, alimentarla con la fede, la preghiera e i Sacramenti. È vissuto per alcuni secoli della storia, “di rendita” con i “frutti”, gli interessi, che il patrimonio cristiano che aveva portato con sé gli offrivano. Ma, avendolo amministrato male («sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto»), finì per esaurirlo completamente, com’è avvenuto oggi. La maggioranza della gente, ai nostri giorni, non ha più la minima nozione di che cosa sia il cristianesimo e vive come se Dio non esistesse, pagandone le conseguenze più desolanti nella propria esistenza quotidiana, stando male interiormente e ad un certo momento, in molti casi, anche materialmente.

A questo punto ci sono due possibilità:

– o ci si dispera, fino a ricorrere all’evasione più totale dalla realtà, per tentare di provare qualcosa di nuovo (alienazione mentale in una realtà virtuale che non esiste, tossicodipendenza, violenza gratuita sempre più estrema fino all’omicidio per futili motivi, perversione di ogni genere fino al satanismo e all’atto estremo del suicidio; e alla guerra senza regole tra gli stati);

– o si incomincia a riflettere ripercorrendo a ritroso la catena delle cause che hanno portato, una dopo l’altra, alla situazione invivibile nella quale ci si trova («sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno»).

= All’inizio la maggioranza delle persone, così come la “politica” dei governi, tenta di limitarsi a considerare solo le cause più recenti, quelle finali della catena, accontentandosi, per incapacità, di fermarsi alle cause più “in superficie”: questa è la “superficialità” che ci circonda proprio ai nostri giorni e la miopia politica di chi detiene ancora un potere puramente umano e cerca di “tamponare le falle” con interventi momentanei («Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci»). Ma si tratta di rimedi inadeguati, insufficienti e dalla dubbia possibilità di successo («Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla»). Se ci si ferma a questo livello, è finita.

= Il Vangelo suggerisce una strada seguendo la quale, come il figlio della parabola, si ha il coraggio di andare fino in fondo nella risalita della catena delle cause dell’attuale condizione di invivibilità dell’esistenza, propria e dell’umanità intera del nostro tempo. La causa originaria di tutto è l’abbandono della casa paterna, il rifiuto della vita secondo Dio, il rinnegamento di Cristo e del cristianesimo, l’avere ceduto alla falsa proposta satanica pensando di fare meglio da soli, ed essendo invece finiti per adorare in Satana un dio che non è Dio, ma la sua peggiore caricatura. Il figlio prodigo si accorge dell’“errore di giudizio” e quindi di “comportamento” (il “peccato”) che ha commesso all’origine e decide di ritornare alla sua “vera casa” (la “dimora dell’uomo”), dal Padre («Mi alzerò, andrò da mio Padre»). E lo fa, non appena per un rimorso moralistico, ma perché capisce che gli “conviene anche umanamente” («Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!». Attenzione a certi “cristianesimi” troppo disinteressati! La vita eterna ci interessa, eccome! E “conviene” essere cristiani anche sulla terra!). Ma non si limita alla convenienza materiale, che pure gli è necessaria, ma capisce che è l’amore del Padre e per il Padre la cosa di cui più ha bisogno e questo lo spinge ad ammettere di avere sbagliato tutto («Gli dirò: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te” […]. Si alzò e tornò da suo Padre»). Riconoscerà di avere perso lo stato di “Grazia”, la dignità («non sono più degno di essere chiamato Tuo figlio») e chiederà di potersi riscattare riparando, in qualche misura, con il suo lavoro al danno materiale arrecato all’amministrazione della casa («Trattami come uno dei tuoi salariati»). Questo è il pentimento sincero che domanda di ricevere una “penitenza” per fare almeno una piccola parte per rimediare (qui sta il concetto di “merito” del cristiano).

A questo punto interviene il Padre, che solo può ricostruire, riparare la dignità perduta dall’uomo che ha infranto il “giusto rapporto” con Dio Creatore. È la Redenzione, che Dio ha operato in Cristo. Tutti i gesti del Padre della parabola descrivono questa “riparazione”, una riparazione che il figlio, con tutta la sua buona volontà, non avrebbe avuto il potere di realizzare con le sue sole forze: «Il Padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi”» (sono le insegne della dignità restituita).

Il figlio maggiore sembra non avere ripercorso fino in fondo, neppure lui, la catena delle cause dei benefici di cui ha sempre goduto stando nella casa e si lamenta per non avere avuto quello che non aveva neppure mai “domandato” («non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici»), perché, probabilmente, non aveva mai “pregato” Dio veramente e non si era mai accorto del bene del quale era partecipe («Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo»).

Ma noi abbiamo un vantaggio in più rispetto agli abitanti della casa della parabola che non nomina mai la “madre” di quella famiglia: noi abbiamo una “Madre”, in Maria che ci consiglia, ci accompagna e ci protegge e ci trattiene dal commettere troppi errori.

Preghiamola, dunque e fidiamoci di lei.

«Noi, dunque, Madre di Dio e nostra, solennemente affidiamo e consacriamo al tuo Cuore immacolato noi stessi, la Chiesa e l’umanità intera, in modo speciale la Russia e l’Ucraina. Accogli questo nostro atto che compiamo con fiducia e amore, fa’ che cessi la guerra, provvedi al mondo la pace. Il sì scaturito dal tuo Cuore aprì le porte della storia al Principe della pace; confidiamo che ancora, per mezzo del tuo Cuore, la pace verrà. A te, dunque, consacriamo l’avvenire dell’intera famiglia umana, le necessità e le attese dei popoli, le angosce e le speranze del mondo» (Preghiera di consacrazione del 25 marzo 2022).

 

 

Alberto Strumia, sacerdote, teologo, già docente ordinario di fisica-matematica presso le università di Bologna e Bari. 

 

 

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