di Mattia Spanò
Ho letto la lectio magistralis ex cathedra del professor Massimo Borghesi sul sito di Comunione e Liberazione, dal titolo Le “Opere” in don Luigi Giussani.
Essendo il professore uomo di cultura molto superiore alla mia, sono certo che la sua ironia e benevolenza siano altrettanto superiori: nell’improbabile caso che legga queste righe, si farà una crassa risata. A me il merito di averlo divertito e forse distratto da questioni urgenti come colorare di rosso il filo che lega don Giussani a papa Francesco.
Premetto che né il suo contributo né la mia confusa critica al medesimo cambieranno il mondo e la storia di una virgola. È il destino degli intellettuali moderni, ridotti a fare gli influencer di questo o quel potere. Scanso equivoci, il sottoscritto è tutto fuorché un intellettuale, dunque il peso delle mie parole è ancora inferiore.
Ci ha pensato George Steiner a liquidare la critica alle opere – incluse quelle filosofiche, letterarie e poetiche, ma possiamo aggiungere quelle umane nell’edilizia, nel sociale e nei famigerati ‘servizi alla persona’ – come una gigantesca patina di inutile pulviscolo che ricopre, impedisce e umilia, invece di aiutare, il contatto con la sostanza delle cose in genere cruda e amarognola, di rado sfavillante.
Il professor Borghesi sarà d’accordo con me almeno su un punto: tutti o quasi guardiamo al passato come una riserva di esche vive per accalappiare “il grosso pesce del lago” (Ramuz) di un presente altrimenti miserrimo. E se una volta a galla il pesce diventa gelatina puzzolente, amen.
Prevale un approccio schiettamente ideologico a chi è venuto prima e per sfortunate circostanze è deceduto, non potendo così denunciare per violenza spirituale i suoi critici ed esegeti. Che il grande della Storia si chiami Giussani, Marx o papa Francesco, il ricorso farfugliato ai morti soccorre sempre i vivi in difficoltà. L’imperativo categorico kantiano è stare bene insieme.
Perciò non muoverò mezza obiezione a ciò che Giussani intendeva con “opere” secondo Borghesi, e quale fosse il loro ruolo nella vita della Chiesa. Frustare i cavalli per farli tornare a “operare” è del tutto ortodosso nella Chiesa “di Francesco”: il mondo mica si cambia, né men che meno si salva, da solo. Tutti uniti ad abbronzarci sotto il sole di Satana, per citare Bernanos.
Del resto, altre “opere” come quelle cartacee di Giussani non sono ancora state sequestrate nelle case e mandate al macero per produrre energia green o ristampare i libri di Borghesi su papa Francesco, dunque ognuno può leggerle e farsi un’idea. Affrettatevi.
Quello che mi lascia perplesso del suo ragionamento in precario equilibrio fra storia, pensiero e attualità – è un vizio del pensatore oggettivo, impietrito dal nulla in cui ci proietta la morte, fondare continuamente nell’hic e nunc una realtà altrimenti sfuggente – è la corrispondenza d’amorosi sensi che egli vede fra don Giussani e papa Francesco.
A leggere Borghesi si direbbe che Giussani sia stato un precursore e profeta di papa Francesco come Isaia lo fu del Nazareno.
Che questa sia l’intenzione manifesta o un cascame del ragionamento di Borghesi, è comunque perfettamente lecita. Ci mancherebbe che il primo venuto si metta a sbertucciare uno studioso come Borghesi, o peggio voglia ridurlo al silenzio come è stato fatto con noi miserabili.
Sorvoliamo sul fatto che Borghesi citi, fra i tanti testimoni di un tempo caritatevole molto lontano dal nostro, proprio Giuliano Pisapia. Il quale nota che nelle loro scorribande di “milanesi bene” nelle zone “economicamente depresse” della Bassa parlavano “anche di fede, ma senza nessuna pretesa di indottrinamento”. Bingo.
Insomma, pare andassero a vedere come se la passavano i povery, il che senza dubbio conferisce agli agi borghesi tutt’altro sapore. Quanto al parlagli o parlare di Dio, con prudenza e il giusto distacco.
Questo è un po’ il limite della beneficenza borghese: l’affannarsi, il tracimare di generosa bontà per giustificare la vita infame del prossimo sfortunato, pardon: meno furbo e meritevole della benedizione divina per eccellenza, il denaro.
Condividere i bisogni per condividere il senso della vita. Le chiese oggi sono vuote proprio perché abbiamo capito cosa c’era in ballo: come dice il papa, il male è la disuguaglianza. Che infatti è rimasta tale ed anzi è aumentata a dismisura. Per colpa dell’indottrinamento, dobbiamo concludere. O del clericalismo magari, chissà. Il papa ha doni per tutti: riceve Bill Clinton per “parlare di pace” e Alexander Soros, mentre manda a vaccinare i senzatetto che bivaccano fuori dalle mura vaticane.
Qualcosa di sideralmente distante dal pensiero di Giussani, il quale forse voleva mostrare al liceale satollo la struttura del cuore come mendicanza di Cristo e nient’altro: così disse davanti a Giovanni Paolo II pochi anni prima di morire. L’uomo soddisfa i bisogni perché ha bisogno della carità. Nessuno la fa perché tutti la ricevono. Perché senza la carità non sono nulla.
La carriera, anche politica, di Pisapia e compagnia è coerente con il passaggio illuminante citato da Borghesi. La fede come conversazione, intrattenimento colto e vagamente lamentoso. Mai come qualcosa da imparare ed esercitare. C’è ben altro da fare: kein Metaphisyk mehr, basta metafisica, c’è il mondo da cambiare, tuonava Marx. Questo dettaglio Borghesi lo rileva eccome, solo lo pone in una luce diversa. Lo critica, ma non del tutto. Si direbbe che ne corregga la traiettoria.
Il punto non è tanto Pisapia, quanto l’occhiolino a Papa Francesco, il quale ha stabilito in modo pitagorico – dal basso della Cattedra di Pietro – la sostanziale equazione tra “fede” e “indottrinamento”.
Rimane un mistero come si possa considerare l’indottrinamento ipso facto una violenza. Il sostrato mi sembra il mito del buon selvaggio: l’uomo allo stato naturale nasce buono, è la società a rovinarlo.
Quest’uomo buono, portatore sano di una verità latente, va accompagnato, ascoltato, accolto senza ipocrisie e falsi moralismi. Condotto per mano verso quello che “lui pensa essere il bene”, come disse il papa a Scalfari. Come dire che è la pecora a pascolare il pastore, non il contrario.
La parte magica del ragionamento risiede nel fatto che in un punto imprecisato di questa narrazione, in un futuro che stranamente non si avvera mai, questa pecorella buona crollerebbe in ginocchio esclamando ‘Mio Pastore e mio Dio’.
È un’immagine suggestiva. Non molto realistica, ma ammettiamolo: tanto caruccia. Se non si concretizza pazienza, ci siamo divertiti – a proposito di utopia, sulle tracce di Borghesi: quella del colpevole è credere di non pagare mai per i propri delitti e le menzogne dette.
Perché un uomo così buono e innocente di tutto debba inginocchiarsi finalmente vinto dalle sorprese dello Spirito, dal momento che Dio lo ha creato naturalmente buono e d’intelligenza affilata come un bisturi al punto da rendere lo stesso Creatore superfluo, mi sfugge. Stupido io, è chiaro.
Stupidi anche un non piccolo numero di ciellini e cattolici in genere, che fanno armi e bagagli e vanno finalmente a divertirsi altrove, o restano con fatica indesiderati ospiti in comunione con la Chiesa.
A proposito del “fate quel che ci pare, tanto non potete sfuggire alla salvezza” (ci non è un refuso: più sento il papa parlare di misericordia, più mi sento minacciato fisicamente e spiritualmente) non c’è dubbio che Dio possa coglierti come un fior di carciofo mentre ti sollazzi ubriaco in un postribolo, mentre ammazzi qualcuno, o perfino mentre concioni di cambiare il mondo e l’uomo da un balcone. Non è però la norma: una dottrina rigorosa dovrebbe spiegarlo bene.
Un po’ di indottrinamento non risolve la vita e non ha mai ammazzato nessuno, ma aiuta a viverla decentemente e senza straparlare di cose che non si conoscono. Di cui anzi nemmeno si sospetta l’esistenza.
Borghesi, come il sottoscritto in misura decisamente minore, non solo è stato indottrinato, ma si è anche indottrinato da solo. Perché privare gli altri di questo vantaggio competitivo? Perché lasciarli fermentare nel loro sentimento vagulo e cangiante? Perché regna papa Francesco? E se domani fanno papa Mario Draghi o Ursula Von der Leyen?
Sorvolati questi aspetti, l’intero scritto di Borghesi è puntellato con passaggi ad alta quota che sul livello del mare manifestano qualche inciampo. Esaminarli uno per uno diventa un secondo lavoro che non mi compete: come ho rimandato a leggere Giussani, invito a leggere lo scritto di Borghesi.
Un punto particolarmente vivo che non posso superare a volo d’uccello è questo: “La Chiesa non contrappone la salute alla salvezza”. Ha perfettamente ragione Borghesi: non le contrappone. Le confonde. Anzi, le fonde.
Lo abbiamo toccato con mano nei ripetuti appelli di papa Francesco a compiere “atti d’amore” vaccinandoci, nell’Eucarestia distribuita con guanti e mascherine, nelle messe sospese, nei celebranti sgomberati dai carabinieri nonostante i fedeli rispettassero le distanze di sicurezza, nella gente cacciata dai raduni di CL perché aveva il green pass scaduto da due ore, nell’obbligo per chi vive o deve accedere al Vaticano di farlo con l’ultima dose aggiornata, nel “vaccino luce di speranza” pronunciato dal papa durante l’omelia la notte di Natale quando di ben altra speranza si dovrebbe esclusivamente parlare (almeno la notte di Natale, almeno cinque minuti all’anno), nei funerali non celebrati, nelle rampogne papali sul “credere agli scientifici” e “obbedire alle autorità”, nella sostituzione di sacramenti come la confessione con un generico “parlate con Dio”.
Lo vedremo presto nell’esercizio “immorale” della vecchia dottrina – parole del papa – che il prefetto venturo Fernandez provvederà a rivoltare come un calzino – parole di Fernandez – frenato, non certo fermato, da un unico problema: se un cambiamento arreca scandalo e turbamento, allora non si apporta.
Davvero qualcuno può permettersi di scandalizzarsi nel 2023, senza averne un turbamento anche peggiore, perdendo il lavoro o finendo in carcere se solo si azzarda a dire, puta caso, che i bambini nascono da un uomo e una donna? È chiaro che cambiare la dottrina diventerà un obbligo surrettizio: potrai pure credere che il matrimonio sia un sacramento indissolubile consumato fra sessi diversi, ma non nella Chiesa Cattolica che si sta affacciando.
Non avremo più dottrina né indottrinamento, dunque? Magari: avremo invece un’altra dottrina e un altro indottrinamento molto più feroce del primo, in cui le donne celebreranno la messa e i preti, finalmente liberati da questa fastidiosa incombenza, potranno sposarsi fra loro. Una dottrina in cui potrai chiamare Dio Pachamama o Grattachecca, se ti fa piacere. In cui il peccato non esiste, dunque qualsiasi spietato abominio sarà lecito e giustificato, purché un potere sedicente scientifico lo comandi.
Esagerazioni? Forse. Di fatto è improbabile arrivare a Roma inserendo nel navigatore Berlino come destinazione. Sono in diversi a pensare che sia ancora possibile. Vivono certamente meglio di me, dunque hanno ragione loro. Per adesso.
È sempre il papa a dire che l’importante è “iniziare processi”. Poi le cose vanno a sbattere da sole, e non è colpa di nessuno. Anzi è colpa mia e dei quattro gatti che l’hanno detto e ripetuto.
Capisco l’intenzione di Borghesi, e la ritengo anche buona e nobile a suo modo. La traduco liberamente così: tenere insieme capra e cavoli. Forse egli pensa sinceramente che ricucire lo strappo serva a raddrizzare il carro. Spero vivamente ci riesca, e spero abbia ragione lui.
Ricucire gli slabbratissimi cattolici, in particolare italiani, nell’unità sbriciolata da tre anni di delirio senza senso, anche ecclesiastico. Spiegare ad una piccola parte di loro che in fondo c’è perfetta continuità fra il pensiero cattolico bimillenario e il tripudio della modernità che lega cattolici e pastafariani. Che Giussani e Bergoglio sono la stessa minestrina incolore – o pranzo luculliano, a seconda dei punti di vista. Roba pur sempre cattolica, a farla corta.
Ricomporre la loro unità con un successore di Pietro controverso e imprudente – pazienza, si dirà, ne abbiamo avuti tanti – che quando islamici sgozzano un prete in chiesa replica che ci sono “cattolici” che uccidono le mogli perché lo ha letto su Repubblica, o che mentre infuria la guerra bacchetta la massima autorità ortodossa accusandola di fare il “chierichetto di Putin”. Si tratta di fiorellini colti a caso in una foresta di “gesti profetici” e parole ispirate.
Capisco che a tale scopo far leva sulla commozione per la figura e il rapporto personale di molti con don Giussani possa tornare utile a giustificare una visione radicalmente immanente, accalappiando i compagni che sbagliano per riportarli all’ovile sotto un cielo che fonde pulsioni marxiste con derive magico-pagane ben rappresentate dagli onori riservati a idoli sudamericani.
Alla luce di questo nobile scopo, qualsiasi angheria diventa una bagattella da dimenticare in fretta, da perdonare d’ufficio. L’importante è l’unità, si diceva. Come raccontavano certi contadini congolesi, costretti dai militari a ringraziarli dello stupro e sventramento di mogli e figlie davanti ai loro occhi: c’è sempre un ideale superiore a muovere l’uomo, qualsiasi schifezza commetta.
Però, dal momento che il mio problema è che morirò, forse nemmeno fra molti anni – come Dio risponde ad Homer Simpson che si lamenta di dover attendere la morte per stare con Lui, “tre mesi non sono tanti, Homer” – lasciatemi dire che di questi dilemmi alti non mi cale né tanto né poco.
Salute e salvezza non sono nemmeno lontane parenti, e in questo mi schiero accanto all’ateo Camus. Anzi la salute ha lo spiacevole effetto collaterale di non essere vissuta come un dono (relativo) del Padre, ma come un coadiuvante dell’orgoglio umano. Come la ricchezza, come il potere che muove il borghese a fare del bene, e la Chiesa e quella piccola chiesa che è CL a spellarsi le mani ascoltando le bugie letali di Draghi e Speranza, come dice Pietro Senaldi: quanti vaccinati sono morti di COVID o nessuna correlazione? Quanti si sono ammalati comunque? Quanti stanno ancora male? Chi può dirlo con esattezza. E se manca l’obiettività scientifica altrimenti detta noia, il fatto non esiste.
La stessa Pfizer riconosce 3000 decessi, mentre il CDC americano ha falsificato i certificati di morte, sia quanto si trattava di far figurare come morti di COVID gente morta sparata, che ora che si tratta di nascondere i morti da vaccino.
Fortunatamente arriva sorella morte corporale a schiarire le menti e i cuori ottenebrati. Peccato che nel momento in cui lo apprendono, il più delle volte, come tanti poveri Martin Eden, cessino di saperlo.
La maggior parte degli uomini esistiti è morta in 30, al massimo 40 anni. Tutt’oggi esistono paesi del mondo dove i 50 anni di vita media non si vedono nemmeno col binocolo.
Per tacere dei bambini abortiti in massa, o quelli abortiti per produrre vaccini (“cooperazione remota al male”, sancì la Congregazione per la Dottrina della Fede) che a loro volta hanno provocato un innalzamento spaventoso di morti improvvise di altri bambini sopravvissuti alla gestione autocratica dei corpi femminili. Bambini colti da ictus e infarto fulminanti a otto anni.
Anche queste sono “opere”, non certo di origine divina, a cui non pochi cattolici si sono prestati con zelo alacre degno di miglior causa.
Il lavoro, la giustizia e la libertà che Borghesi cita come cose care tanto a Giussani quanto a Bergoglio, sono finite allegramente giù per lo scarico a tutela della salute dei “nonni saggi”, come li chiama Bergoglio. Con l’operosa collaborazione di molti cattolici che si sono precipitati non solo a “unirsi al papa” nel vaccino, ma anche ad allontanare, denunciare e maltrattare in ogni modo possibile i propri fratelli, con una perfidia raccapricciante.
Parafrasando Churchill, hanno sacrificato la Fede sull’altare della Scienza per evitare la morte, hanno perso entrambe e moriranno lo stesso. Di sicuro alcuni lo sono già, confortati nella loro “libera scelta” anche da pensatori cattolici come Cesana, come Ladaria Ferrer, come il professor De Mattei e lo stesso pontefice. Ora qualcuno vuole la pax catholica? Si penta e la chieda a Dio, che accorda all’uomo sempre ciò che ritiene indispensabile. Ma è Dio stesso che è indispensabile all’uomo, non il contrario.
Invece di combattere povertà e ingiustizie e malattie che l’avranno sempre vinta sull’uomo, come fatti testardi dimostrano, ci si dedichi alle anime, che sono immortali ma non salve. E nemmeno in buona salute, mi pare. La violenza peggiore di scatena quando si toglie all’uomo non il lavoro, non la giustizia né la libertà, ma quando lo si priva della verità.
Devo chiedere onestamente perdono a Massimo Borghesi: è vero, mi sono allontanato molto dalla riva del suo ragionamento. Mi sembra che altrettanto abbia fatto lui col pensiero di don Giussani. Forse perfino con quello del papa.
Equidistanze trascurabili: entrambi siamo letti da un manipolo di infelici. Il resto del mondo se ne infischia giustamente di noi, più che altro ignorando il fatto che esistiamo. Giusto così.
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