Ricevo da un lettore e volentieri pubblico

 

 

Yuval Noah Harari ha scritto nel 2011 “From Animals into Gods: A Brief History of Humankind”, tradotto in italiano nel 2017 col titolo “Sapiens: da animali a dei”, un bellissimo trattato centrato sull’evoluzione dell’Uomo dalla sua prima apparizione fino ai giorni nostri e oltre.

La bellezza del lavoro consiste, a mio avviso, sulla capacità che ha dimostrato Harari di uscire dagli schemi tradizionali di trattazione storica, portando il lettore attraverso un percorso molto articolato che riguarda la presunta evoluzione dell’Homo Sapiens. Il libro è un saggio, molto aperto verso l’abbattimento delle barriere ideologiche che riguardano la storia della società. Un esempio è calzante: “Tutte le società sono basate su gerarchie immaginarie”. Per noi che siamo nati in un contesto sociale molto schematico, il fatto di ritenere immaginarie le gerarchie sociali appare molto rivoluzionario.

Harari sviluppa il tema in più fasi, ma la logica di fondo del suo lavoro risiede nella mancata accoglienza delle strutture portanti della nostra società, ritenendo gli schemi, i valori, le regole del tutto estranee allo spirito dell’Uomo.

Già qui c’è di che riflettere, anche in termini politici e sociali correnti: se tutto è stato immaginato prima e imposto poi, potrebbe avvenire qualcos’altro che, seguendo lo stesso percorso, possa portare a tipi di società completamente differenti. Ne consegue, quindi, che non esiste a priori un tipo di società-guida, direttamente connessa con le caratteristiche di chi ci vive, ma possono esistere schemi alternativi di società, che presentino una “pari dignità” rispetto a quelle correnti da noi conosciute. E poi, non esiste alcuna irreversibilità reale di un “ritorno al passato”, alla ricerca degli equilibri perduti dei “miei tempi”.

Vorrei concentrarmi sulla quarta parte del libro, quella dedicata alla rivoluzione scientifica, nata circa 500 anni fa, ed alla successiva rivoluzione industriale, nata 200 anni fa. Bene, il messaggio che è possibile estrarre da quanto scritto mette in evidenza la grande accelerazione di velocità che sta avvenendo nel cambiamento a seguito delle progressive innovazioni tecnico-scientifiche che hanno determinato un miglioramento nella qualità della vita degli umani, anche a discapito di una felicità, il cui concetto è chiaramente mutato nel corso del tempo. Ma stare meglio, curarsi meglio, vivere meglio vuol per forza dire essere più felici? La felicità è raggiungibile con uno stato umorale personale che valuta molte componenti e da un valore intrinseco al “patrimonio” di vita della persona, quando per patrimonio intendo sia le componenti materiali, sia quelle immateriali e relazionali. E per questo, seguendo il ragionamento di Harari mi chiedo se, dopo aver ottenuto molto possiamo dirci più felici di altri che hanno avuto meno e, soprattutto, hanno peggiori prospettive di vita.

Harari non aiuta a trovare risposte, forse aiuta a trovare sé stessi, anche se la lettura del suo libro determina un incremento di dubbi e di perplessità. A me sembra che, soprattutto la generazione del dopoguerra, abbia vissuto una vita con minori pericoli bellici, almeno in Europa, ma con maggiori tensioni sociali che, molto spesso, sono state gestite e, a volte, anche strumentalizzate per fini tutt’altro che sociali. Vivere per vivere non penso possa rientrare tra gli obiettivi dell’Homo sapiens primordiale, ma neanche nel sapiens corrente. Se alla schiavitù abbiamo sostituito il precariato diffuso, mi dite dove è cambiata la società? Se al Principe o al Duca abbiamo sostituito il Comitato dei 300, mi dite come è cambiata la società? Se poi pensiamo seriamente che tutto il costrutto di questa società non sia altro che un’immaginazione collettiva, imposta da qualche potente ed accettata dalla società, mi dite perché la società dovrebbe essere felice? Eppure esempi contrari li possiamo vedere andando in giro per il mondo, dove possiamo incontrare persone serene e sorridenti nelle aree più povere dei paesi poveri.

Se è vero che sta per calare il sipario” dice Harari nelle conclusioni del suo libro “sulla storia di Homo sapiens, noi che apparteniamo a una delle sue generazioni finali dovremmo dedicare un po’ di tempo a rispondere a un’ultima domanda: che cosa vogliamo diventare?

Claudio Izzo

 


 

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