
di Giovanna Ognibeni
È il momento del bricolage teologico-biblico. Non lo dico con irriverenza ma per tenermi basso: so bene che ogni bricoleur che si rispetti comincia con la casettina per le upupe, poi passa alla casa sull’albero per i figli, infine al casotto per gli attrezzi del giardino, ma intanto compulsa Internet, per vedere se gli riesce di trovare le istruzioni per una centrale nucleare. Quindi vedrò di procedere a testa bassa guardando di non cadere.
Giorni fa ho letto su questo blog un articolo sull’esistenza dell’inferno: in esso l’autore confronta la credenza pressoché universale almeno tra i cattolici per circa 1960 anni dalla nascita di Cristo con il pensiero diffusosi generalmente e capillarmente sulla natura simbolica quando non fantastica dell’inferno che è andato affermandosi dopo il Concilio Vaticano II.
Tale credenza, nota l’autore, sebbene implicasse l’idea che una larga parte dell’umanità, vuoi per la sua condizione pagana vuoi, se cristiana, perché peccatrice impenitente, si affollasse alla porta larga dell’inferno (Matteo, 13-14), non significava tuttavia che gli uomini vivessero nel terrore e nella tristezza, ma anzi i santi manifestavano gioia e fiducia.
Personalmente sono convinta dell’esistenza dell’Inferno e considero esiziale la nonchalance con cui la questione non viene neppure considerata nell’insegnamento catechistico e sono parimenti convinta che questa posizione dati dal Concilio o perlomeno ne sia uscita rafforzata.
A partire da allora nelle prediche i peccati sono divenuti fragilità; se poi al sostantivo unite l’aggettivo esistenziali, fate l’en plein. Negli anni ‘60/70 era molto di moda essere in crisi: ogni giovane pensante doveva esserlo sull’onda del long dopoguerra degli anni ’50; se prendeste un qualunque autore – di teatro, letteratura, cinema, non ne trovereste mezzo cui andassero bene le cose: dalla Beat Generation a Salinger ad Osborne e a Gioventù Bruciata, agli Urlatori nella musica popolare italiana tutto era da contestare: il mondo degli adulti fu preso in contropiede e persino la Chiesa non seppe costruire un argine. Cominciava ad affermarsi il lato glamour della trasgressione, che portava ad immaginarsi in un bistrot di Parigi fin de siècle a bere un bicchierino d’assenzio o in una boite tra le due guerre a ragionare del nulla (in senso filosofico e spesso in senso comune). Tutto era stato abbondantemente preparato nel campo letterario fin dalla nascita del movimento romantico: il masnadiero di Schiller farebbe innamorare qualsiasi fanciulla ben allevata (un suo sosia si trova nel racconto Dubrovskij di Puskin) e poi il selvaggio l’Heathcliff di Cime Tempestose, la serie infinita delle Violette verdiane e delle Emme Bovary, le stesse biografie di poeti come Byron e Shelley, i fiori del male, e chi più ne ha più ne citi. In poco più di un secolo “I Dolori del Giovane Werther” sarebbero trascolorati nei torbidi “Turbamenti del Giovane Törless”.
Certamente non tutta la letteratura era così sulfurea, soprattutto la grande letteratura. Ma la grande letteratura non fa tendenza, i suoi cascami invece sì. A questo si aggiunsero, almeno per l’Occidente, il boom economico, l’idea di un progresso materiale indefinito, la televisione e la moda: ma mi fermo qui perché mi accorgo di essere tentata da un saggio spin-off sul fascino del male ed invece atteniamoci alla sola evidenza di esso.
Benissimo; allora perché quel vago senso di perplessità ed anzi irritazione che mi ha colto nella lettura dell’articolo richiamato? Forse perché mi è parso di avvertire, e magari fraintendendo, le tesi esposte come una diagnosi tecnica dei destini umani, corredata da diagrammi, a barre o a torta come preferite: qui ci piazziamo i pagani, qui i cristiani, lì i cattolici e lì i peccatori, eccetera.
Oppure come la revisione delle tessere di un club e del loro rinnovo, una questione di timbri, di validità.
C’è dunque una folta fila di gente respinta alla porta del prestigioso Rotary Club perché senza tessera, in quanto morta extra ecclesiam, una condizione che ormai riguarda moltissimi anche dentro i confini formali dell’orbe cristiano, fin dentro le nostre parrocchie.
La sorte di quanti, prima dell’Avvento di Cristo e poi per impossibilità geografica non sono stati raggiunti dal buon annuncio, ha turbato i cuori dei cristiani dagli inizi, soprattutto dopo che la tensione escatologica era venuta stemperandosi nella presumibile certezza che il mondo non sarebbe finito così presto.
Anche la nozione di Purgatorio già presente negli scritti più antichi e nella pietà popolare trovò la sua codificazione solo tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo. L’esistenza di un luogo, uno stato in cui le anime potevano completare la necessaria opera di purificazione, sollevò i numerosi fedeli che potevano iniziare a pregare per le anime del Purgatorio; nei secoli precedenti si erano venute a creare pie leggende in cui le preghiere d’intercessione potevano strappare alla giustizia divina dei “permessi premio” ovvero alcuni giorni in cui le anime dei dannati potevano trovare requie dai tormenti infernali. Infatti ben pochi erano ritenuti quelli che meritassero il Paradiso al momento della morte. Negli stessi secoli veniva proponendosi l’idea del Limbo, che però non venne mai resa assertiva ma rimase sempre, potremmo dire, in balia di sé stessa.
Il Limbo più famoso è quello di Dante situato nel primo cerchio dell’Inferno, che al lettore medievale evocava la discesa agli Inferi di Enea cantata dallo stesso Virgilio, l’ultimo scalo di un viaggio senza arrivo, dove impera la memoria tutta rivolta al passato, immersa in una malinconica quiete, e che a me ricorda il finale de “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov, in cui i due protagonisti conducono la loro esistenza dopo la morte in un crepuscolo eterno. (Dante poi metterà a guardia del Purgatorio il romano Catone Uticense e in Paradiso – Canto XX – addirittura l’imperatore Traiano, pagano nonché blando persecutore dei Cristiani, seguendo una pia leggenda medievale che voleva l’imperatore risuscitato dall’intercessione di Gregorio Magno, commosso dalla virtù della giustizia testimoniata da Traiano, per quei pochi momenti necessari a far professione di fede in Cristo. Segni che documentano come il tema della giustizia divina fosse ben sentito nei secoli).
C’è un inno famoso e molto bello di San Gregorio di Nazianzo: di un suo passo esiste una traduzione meno comune ma probabilmente più esatta filologicamente, che dice “Dirò una parola certo audace/ ma egualmente la dirò:/ se non fossi tuo,/ avrei subito un’ingiustizia, Cristo mio”.
La vita è bella, ma stretta nella morsa degli accadimenti, tra piaceri e sofferenze: ”Che tirannide è questa?” inizia così l’inno. L’uomo senza Dio è come le bestie: Salmo 48 “Andrà con la generazione dei suoi padri/ che non vedranno mai più la luce./ L’uomo nella prosperità non comprende,/ è come gli animali che periscono”.
Neppure nell’eterno ritorno è la risposta: già l’Enea di Virgilio, contemplando le anime che attendono di reincarnarsi dice “Che pazza voglia hanno dunque della luce le misere?”.
Ingiusto il destino dell’uomo senza Cristo, senza Dio.
Lungo tutti i salmi corre, come una nota di fondo, l’eco di questa ingiustizia che provoca Dio a rispondere; anche in Giobbe ne sentiamo l’eco: Dio, dopo averlo ben bene strapazzato, rimprovererà i suoi amici che così saggiamente l’avevano consigliato, spronato, ammonito perché “non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe”.
Quando S. Francesco Saverio scriveva accorato a S. Ignazio lamentando la mancanza di missionari che potessero annunciare Cristo in Oriente e così strappare alla dannazione tutte quelle anime purtroppo consegnate all’Inferno benché prontissime ad accogliere il messaggio cristiano, si esprimeva in una prospettiva molto diversa da quella in cui confidiamo: tuttavia non sembra poi peregrino osservare come anche in una prospettiva intramondana e storica, se l’Estremo Oriente fosse stato conquistato al Cristianesimo, forse la Cristianità oggi ne avrebbe giovamento.
Le nostre azioni, ed inazioni, hanno un peso nel sistema gravitazionale delle realtà spirituali più incidente di quello che immaginiamo.
Anche Santa Teresa del Bambin Gesù si voleva offrire in martirio per le missioni, e venne esaudita al di là delle sue aspettative, come confessò nel suo diario.
Potrebbe essere che la sorte degli incolpevoli pagani sia affidata alle nostre preghiere e ai nostri sacrifici in quella economia delle forze che regolano i rapporti reciproci delle anime tra loro e con Dio? Credo si possa esprimere nell’idea del Corpo Mistico e della Comunione dei Santi.
Una risposta è già stata data dal Catechismo di Pio X, che al n. 132 apre alla speranza della vita eterna per quanti, senza loro colpa, sono fuori della Chiesa ma che tuttavia possono “salvarsi con l’amore di carità che unisce a Dio, e in spirito anche alla Chiesa”.
Non reputo neppure difficile e rara l’evenienza del così detto Battesimo di desiderio: così sarebbe se ne fosse demandata l’efficacia alle nostre valutazioni ma credo che Colui che conosce i segreti dei cuori non debba incontrare molte difficoltà nel giudicare.
Ricordiamo poi, a nostra speranza, l’episodio del centurione, cui Gesù riconosce una fede maggiore di quella degli Israeliti, e la parabola del buon Samaritano, l’eretico per antonomasia, che si ferma a soccorrere il ferito.
Certamente, è molto diversa la situazione di quelli con la tessera scaduta, per incuria, distrazione e poco interesse, o illeggibile. E molto più preoccupata la nostra reazione: non invogliano all’ottimismo alcuni passi del profeta Ezechiele (ad esempio, Ez. 33/13 “Se io dico al giusto: Vivrai, ed egli, confidando sulla sua giustizia commette l’iniquità, nessuna delle sue azioni buone sarà più ricordata e morirà nella malvagità che egli ha commesso”) né gli ammonimenti reiterati di Gesù. Un poco di conforto ce lo recano le parole di Dio sugli abitanti di Ninive al profeta Giona “che non sanno distinguere tra la mano destra e la sinistra”. Mai definizione fu più azzeccata su tutti gli uomini, di tutti i luoghi e tutti i tempi, trovando dolorosa eco sulla Croce “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”.
Una ancor più flebile speranza è riposta nelle tre condizioni, individuate dal catechismo di San Pio X per definire il peccato mortale: materia grave (e su questo, ahimè, non c’è partita), piena avvertenza e deliberato consenso. Ora, la piena avvertenza potrebbe mancare sia per il generale grado zero della conoscenza dei contenuti della fede, (stendiamo una spessa coltre sui catechismi, che per giusto pudore non si chiamano più “dottrina”), sia per l’incapacità e vera e propria incuria nella trasmissione della fede da parte dei genitori. Tuttavia, se postuliamo la possibilità, pertinente al Mistero, di aderire a Cristo pur non avendone ricevuto l’esplicito messaggio, non possiamo non considerare che esiste la luce della ragione naturale a renderci avvertiti del significato e del valore delle nostre azioni.
Il punto è che non abbiamo più le parole per dire le cose, ma in questo modo non siamo neppure più in grado di distinguerle e comprenderle. Guardiamo ai moderni necrologi sui social: usiamo vuote e pompose chiacchiere ma non riusciamo ad esprimere il dolore per la morte di una persona amata, della madre per il figlio – ho avuto il privilegio di conoscerti, della moglie per il marito – mi facevi stare bene (ma non il contrario evidentemente), dell’amico – che continua a vedere il defunto regatare o fare rafting, dimentico che l’augurio di cavalcare per le verdi praterie del cielo ha senso solo in Tex Willer.
Anche la Chiesa le ha lasciate cadere in disuso, le parole di vita eterna. A pena (volutamente scritto così) trova parole serie di vita. Per questo non riesco a commuovermi per le parole di Bergoglio sull’aborto come espressione della cultura dello scarto. Che vuol dire? Perché usare categorie sociologiche? Non ti danni l’anima per una categoria sociologica, lo scarto è una pratica nociva, meglio la differenziata sicuramente.
E la cultura poi, quella è piena di condizionamenti, ma non è certo questione di vita o di morte. Insomma, ti metti sul piano del linguaggio piatto, orizzontale:” Bella, raga’, i diritti sono i diritti, il corpo se lo deve gestire la donna”.
Hai sbagliato, al massimo hai peccato in modo generico contro un principio astratto. Non hai sfregiato l’immagine di Dio, riflessa in quel piccolo bambino che non ci sarà. Come dice il Salmo 50 “Contro di te, contro te solo ho peccato”.
Ma nessuna parola sociologica, di pacificazione sociologica o anche psicologica, può ridarti la vita lacerata, abortita; e non sto parlando del bambino.
Forse, nel tempo senza tempo, dove non c’è presente passato e futuro, la sorte di tanti, anche qui, si giocherà sulla supplenza che tante anime con la preghiera avranno compiuto?
Siccome ogni uomo, ed io in particolare, ha una dose ben limitata di compassione verso gli altrui destini, per quanto riguarda gli odierni padroni del vapore, il mio animo ondeggia tra la quieta gioia di pensarli scaraventati all’inferno e la suggestione offertami da Dante circa i corpi abitati dai demoni mentre le anime sono già all’Inferno. (Canto XXXIII, i traditori degli ospiti, ma va bene anche per i traditori dell’umanità).
Questi Signori, finanzieri, benefattori financo presidenti cattolici, che hanno cooperato attivamente, per tacere di pandemie e guerre, ad accelerare la veniente Età dell’Oro con milioni di aborti possono far baluginare l’idea a Hitler, Stalin, Mao, e tanti altri di avere una sorte meno dura della loro nel Giorno del Giudizio. Potrebbero persino avere il compito di essere strumenti della correzione di Dio, come gli antichi Filistei che il Padre Eterno, ancora digiuno poveretto dei principi inclusivi, usò per castigare-raddrizzare il Popolo Eletto.
Sta di fatto che la gran parte del mondo ha praticato, avallato, giustificato, tollerato l’eccidio smisurato di innocenti. Ora è condotto da questi omini di burro gioiosamente verso il Paese dei Balocchi, come tanti Pinocchio e Lucignolo. O, per usare una metafora più cruda, tutti noi da decenni ci urtiamo, spingiamo come tanti maiali a tuffare il muso nel trogolo, nella nostra avidità senza freni, mentre il nostro benefattore, il porcaro, ci guarda sorridente, e più ci ingozziamo più si sente beato.
Il tono è un po’ troppo apocalittico anche per me, che mi sorprendo a dispiacermi se per avventura dovessi rinunciare al viaggio in Irlanda, mai visitata, o a ricoprire il divano che ne avrebbe tanto bisogno, e poco mi consola il pensiero che il tanto osannato progresso non ha esteso alla maggioranza i benefici le comodità dei pochi (tutt’al più le loro contraffazioni) ma solo le preoccupazioni e le ansie.
E questo dice tanto, mi pare, della nostra serietà, ma meno siamo seri noi, tanto più lo diviene la situazione.
Comunque, se sono apocalittica io, pensate ai vari Soros, Schwab e compagnia di giro che giustamente si preoccupano di quanto siamo troppi e di quanto consumiamo.
E comunque, ribadisco, anche volando rasoterra come i coccodrilli, non credo ci sia stata un’altra età nella storia in cui si sia teorizzato a tal punto un capovolgimento della realtà, della natura e della storia (vai al capitolo cancel culture) e portato a tali estremi il cupio dissolvi.
Infine, dopo aver portato tanta acqua al mulino del mio ideale interlocutore, mi trovo a fargli un ultimo appunto: nella sua argomentazione, egli sceglie come esempi di probabili candidati all’inferno il vicino indù e il genero di cui si farebbe volentieri a meno.
Non una persona amata, non un figlio di cui ci si preoccupa e di cui si ricordano i momenti di tenerezza e di fiducioso abbandono nelle braccia dei genitori quando era piccolo. Poiché, se e quando veniamo assaliti da tali pensieri, ci si taglia il fiato e ci copriamo gli occhi come il dannato michelangiolesco della Cappella Sistina per non vedere l’orrore dell’abisso.
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente le opinioni del responsabile di questo blog. Sono ben accolti la discussione qualificata e il dibattito amichevole.
Sostieni il Blog di Sabino Paciolla
Scrivi un commento