
di Autore Vario
…e dunque, un’ideologia che pretende di dare pieno riconoscimento a come una persona si sente e a negare l’evidenza naturale di quello che una persona è pone le basi per minare l’oggettività della scienza e di ogni sapere umano (o conferma tale processo in atto).
Purtroppo, oggi questa tendenza a sovvertire la realtà o a manipolarla ancorandola a criteri soggettivi sta dilagando in molti contesti. Ne abbiamo una riprova, ad esempio, per la questione dell’aborto: la scienza dice che l’embrione ha un corredo cromosomico umano che lo rende persona, distinta dalla madre che lo porta in grembo. È quindi un essere umano e lo è sin dal concepimento. Per qualcuno però questa evidenza scientifica verrebbe superata se la madre considera soggettivamente l’embrione come grumo di cellule: in tal caso, se lo percepisce così, una persona cessa di essere tale e diventa sostanzialmente equiparabile a spazzatura (e magari smaltita allo stesso modo).
Stesso soggettivismo e arbitrarietà in campo giuridico. Il positivismo è presupposto sistematico che regola il diritto e sul quale si fondano gli ordinamenti giuridici (tranne quelli anglosassoni che seguono il modello della Common Law). Esso prevede la preminenza della norma scritta (ius positum); il diritto codificato per iscritto per avere certezza deve poi declinarsi in un sistema gerarchico con vari gradi di legge (per il quale un grado è necessariamente più vincolante di quelli che stanno sotto); la certezza del diritto esige inoltre che ci siano criteri ermeneutici, cioè di interpretazione delle leggi, per risolvere dubbi di comprensione o applicativi. Tutti questi fondamenti giuridici di stabilità vengono oggi sempre più scardinati dalla pretesa di tanti giudici di creare e applicare norme fondate su teorie ideologiche e in aperto contrasto con disposizioni di legge. Si applica insomma il diritto che piace al posto di quello che c’è. Seguendo così un’impostazione di stampo britannico che consegna non solo l’interpretazione ma anche la creazione di norme agli umori ed arbitrii di una casta intoccabile.
In filosofia poi ecco la conferma della deriva nel pensiero debole (soggettivismo, relativismo, nichilismo) che soppianta, sfigura e travolge ogni postulato o punto fermo senza lasciare niente di definito. Si dirà che anche i grandi filosofi del passato sono sempre stati battitori liberi; sì, ma anche quando costruivano castelli di carta elevati sulle fondamenta del ‘secondo me’ hanno sempre avuto la pretesa di offrire un pensiero organico, sistematico e universale.
Nell’arte impera alla grande il principio che non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace. Il che ha reso ogni rappresentazione artistica sempre più astratta, concettuale o ideologica. Con il risultato che il gusto e l’apprezzamento vanno a ruota di mode, sostenute da fiumi di denaro o da critici prezzolati. E con la conseguenza che il bello oggettivo viene soppiantato da una concezione artificiosa e intellettuale dell’arte che lo degrada a opzione tra le altre.
E veniamo all’ambito scientifico. Qui il perno su cui si dovrebbe poggiare la ricerca è necessariamente l’oggettività (e quindi postulati, assiomi, punti fermi) ovvero l’esperimento, cioè la dimostrazione con criteri valevoli universalmente in un certo ambito. Il metodo scientifico esige certezza. Il dubbio è il motore che aziona la ricerca ma si deve sciogliere in un approdo di conoscenza. Se invece prende piede un dubbio che non si scioglie mai o un punto di vista soggettivo che non ammette contraddizioni e si arroga la pretesa di disconoscere la realtà, per la scienza è una campana a morto. E il sonno della ragione, si sa, genera mostri. O conseguenze aberranti.
Qualcuno potrebbe per esempio imporre ad altri la sua verità che il sole gira intorno alla terra perché stando a guardare il cielo percepisce che è così. In effetti, la teoria della relatività paventa questo rischio e lo supera con la ragione. Direi che la teoria della relatività rappresenta la sconfessione razionale del relativismo (etico e non). Secondo essa, per interpretare la realtà non ci si può fermare al punto di vista soggettivo, al ‘secondo me’, ma bisogna ancorarsi a riferimenti oggettivi, a punti fermi. Altrimenti, oltre a sconfessare Galilei, potremmo buttare alle ortiche ogni progresso in campo scientifico.
A tal proposito, traggo dal sito della Treccani (qui) questo estratto di carattere divulgativo che ci introduce alla comprensione della ‘teoria della relatività’ di Einstein:
IL DILEMMA DEL VIAGGIATORE
Immaginiamo di essere il passeggero di un treno fermo in stazione e di osservare dal finestrino un altro convoglio che attende di partire sul binario vicino. A un tratto ci accorgiamo che questo secondo treno si sta allontanando. D’istinto, per essere certi che sia l’altro treno a muoversi e non il nostro, cercheremo un riferimento sulla cui immobilità non abbiamo dubbi, per esempio il marciapiede della stazione o un cartello segnaletico. Ma se fosse notte e fosse visibile solo l’altro convoglio e non la stazione? In quel caso non sarebbe affatto facile stabilire quale dei due treni è partito: il moto non è un concetto valido in senso assoluto, ma è sempre relativo all’osservatore che lo considera.
Per studiare un corpo in movimento dobbiamo munirci di un metro e di un orologio, scegliere un punto di riferimento e una terna di assi orientati nello spazio che partono dal punto, rispetto ai quali misurare le distanze; dobbiamo infine stabilire un istante iniziale rispetto a cui misurare gli intervalli di tempo. Per il passeggero che vuole capire se il suo treno è partito o meno, la stazione è un buon riferimento, ma se dovesse descrivere il movimento di una biglia che rotola sul pavimento del vagone su cui viaggia troverebbe molto più comodo scegliere un riferimento fermo rispetto al pavimento.
Ma torniamo al discorso di prima, del soggettivismo e del relativismo che minano le basi razionali sulle quali si basa la nostra società. Il problema più grande non è tanto la percezione soggettiva di qualcuno ma l’appoggio istituzionale, politico, ideologico e mediatico che tende a svilupparsi in assenza dei freni inibitori dell’oggettività. In altre parole, non è grave il fatto che qualcuno dica castronerie ma il fatto che a volte gli altri siano obbligati a rispettarle senza metterle in discussione.
Si potrebbe però obiettare: l’oggettività è un requisito irrinunciabile se la ricerca verte in un ambito scientifico; in un diverso ambito morale salta tutto, perché certe situazioni non si possono dimostrare; per esempio, l’amore non si misura né i sentimenti possono essere oggetto di analisi. Il che è vero rimanendo strettamente in ambito morale. Ritornando alla pretesa di chi vuole riconoscersi ed essere riconosciuto in un sesso diverso da quello assegnato dalla natura, è bene allora inquadrare la questione. Essere maschio o essere femmina, pur avendo ricadute morali, rimane un’evidenza con un preciso riscontro fisiologico e quindi medico-scientifico. Il punto di vista cromosomico (cioè la realtà del DNA) è spietato nella sua evidenza e non ammette repliche. Non è mascherando la propria natura con l’ausilio di protesi e ormoni che la si cambia. Il DNA che la identifica rimane sempre quello. Non è che se mi metto una maschera da Zorro io diventi Zorro. Magari mi sento come Zorro ma non lo sono. Non posso quindi pretendere bagni riservati per Zorri o di essere identificato con adeguati pronomi zorreschi.
Quando si parla di presupposti ai quali ancorare la ricerca, questa esigenza che vale in campo scientifico dovrebbe essere estesa anche in campo etico. Anche se, occorre ammetterlo, è molto complicato.
Una società non può sussistere nell’anarchia, senza valori morali, né con principi etici degradati ad opinioni. L’uomo ha bisogno di verità universali, cioè vere per tutti. L’etica relativista senza verità rappresenta un bicchiere vuoto davanti a uno che brucia di sete.
La verità impone dei limiti, degli steccati da non superare: è vero. Ma sembra che anche il relativismo odierno non sia da meno.
Succede infatti che la mentalità relativista, spacciata inizialmente come libertà da schemi e gabbie ideologiche, ha finito per basarsi su una tolleranza che è solo di facciata. Una tolleranza fake. Essa è diventata un pesante fardello da imporre ad altri, per piegarli ad un certo tipo di pensiero. Una prigione dalla quale non si può uscire; eppure, sbandierata come segno di civiltà.
Questo atteggiamento può essere definito ‘relativismo relativo’. Funziona così: la verità degli altri non esiste o viene tollerata come semplice opinione e spesso non viene neanche lasciata spiegare; le proprie opinioni invece vengono elevate, di fatto, a dogmi indiscutibili. E chi non si allinea rischia di essere emarginato e magari anche punito pesantemente in nome di propositi fake quali inclusività, sostenibilità, rispetto, lotta al bullismo, resilienza…
Insomma, dietro la maschera del relativismo, il potere mostra oggi il suo vero volto, sintetizzato in questa parodistica riformulazione dell’articolo 21 della nostra Costituzione che riflette meglio la sudditanza dei cittadini ‘tutti hanno diritto di manifestare liberamente il pensiero unico…’
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente le opinioni del responsabile di questo blog. Sono ben accolti la discussione qualificata e il dibattito amichevole.
Sostieni il Blog di Sabino Paciolla
L’essere della foto è repellente.
L’ “Uomo” non più creato da Dio ma dall’uomo…