di Giovanna Ognibeni

 

“La Diocesi di Alessandria … organizza(no) per domenica 8 ottobre una Giornata Ecumenica per il Creato… Alle ore 18 è prevista l’apertura dell’evento e a seguire un incontro a tema con la partecipazione del Vescovo di Alessandria… Alle 19,30 l’evento saliente della giornata: la piantumazione di un albero, simbolo della conversione ecologica, e alle 20 un aperitivo”.

Ho trovato l’annuncio dell’EVENTO (a buona ragione maiuscolo perché nel testo è riportato per due volte in tre righe) in un articolo pubblicato nel blog Duc in Altum dell’8 ottobre.  

Piccola divagazione: il verbo piantumare è sinonimo di piantare, solo più brutto: le sue origini in gergo vivaista risalgono al ’700 ed è citato da Leopardi; il senso è vagamente dispregiativo e questa sfumatura è ben resa dalla sciatta bruttezza del suono. E deve essere questa la causa del suo essere stata entusiasticamente accolta nel gergo burocratico, un po’ come il plateatico che da tributo sul suolo pubblico è passato a significare la pavimentazione stradale.  Nelle circolari prefettizie e nei verbali delle forze dell’ordine un disgraziato non cade sul selciato o sull’asfalto, ma sul plateatico, così come, del resto, lo stesso sventurato non cammina o corre per la via, bensì transita (e diviene così illico et immediate, o se preferite in tempo reale, il soggetto).

Negli anni tra vecchio e nuovo millennio nella Firenze di Dante, davanti alla stazione di Santa Maria Novella, era vietato non calpestare le aiuole ma “accedere al manto erboso”. 

Che sia stata o meno l’ansia di dialogare e farsi capire dalla modernità, fatto sta che anche la Diocesi di Alessandria si è messa a piantumare.

Ma bando alle divagazioni.  La notiziola mi è piombata addosso come un pallone calciato per sbaglio (per sbaglio?) dal ragazzetto di turno e subito è rimbalzata all’altro grande Evento dell’ottobre 2019, che nitido si staglia nella memoria come la Parata dei larghi posteriori, dal pontefice col badile in mano nell’atto di piantumare al cappuccino che inchinato ad omaggiare la Pachamama – sul manto erboso ovviamente – fa bella mostra delle sue terga imponenti. La notizia rimbalza poi ancora più lontano, agli alberi delle libertà repubblicane, citati da Valli.

Seguiamo quindi le clorofilliane tracce all’indietro, ad esempio tra le edere, i pampini e i pomi maturi del pieno Rinascimento agitati dalla lieve brezza che scompiglia i riccioli della Primavera, nei Riposi tizianeschi su su sino ai boschetti di Arcadia. Dimenticati i severi e rocciosi paesaggi giotteschi, tutto è richiamo alla vitalità della natura. Tutto parla di vita e di gioia, ben lontano dall’”odioso legno della croce, la cosa più disgustosa che esista sotto il sole” secondo Goethe.

Verso la fine del 1700, quando i Lumi assunsero il bagliore rossastro della Rivoluzione, sette come i RosaCroce e la Massoneria puntavano ad armonizzare, ad umanizzare il cristianesimo sottraendolo al suo destino di uomo appeso ad una croce, legno morto che non ha in sé nulla di piacevole.

La Croce, legno di tortura e di morte, era nei primi secoli del cristianesimo strettamente collegato all’albero della vita nell’Eden da cui quei due scriteriati di Adamo ed Eva avevano colto gli unici frutti da cui dovevano stare lontani. Le leggende medievali ricreavano immaginativamente questo legame: il legno della Croce veniva da una pianta nata da un ramo dell’albero edenico. L’albero nelle antiche religioni di area iranica e mesopotamica (ma insomma quasi dovunque) era uno dei principali simboli – ma in quei tempi i simboli erano molto meno astratti dei nostri attuali ghirigori – del legame, della vicinanza come della lontananza, tra cielo e terra.

Archetipo tutto umano, allora? Certamente, ma più propriamente, forse, desiderio figurazione di quello che sarebbe stato Cristo.

“Guarda le mie mani inchiodate al legno per te, che un tempo avevi malamente allungato la tua mano all’albero” dice Cristo in un’antica Omelia sul Sabato Santo.

È singolare come certe suggestioni, certe immagini, certi simboli permangano nella storia seppure trasformati, travestiti: acqua fuoco albero erano fatti della solida materia della terra, non della sostanza di cui son fatti i sogni come le nostre conversioni ecologiche.

E sotto questo aspetto, una nota curiosa, divertente e perfino rasserenante.

Nei lontanissimi anni ’70 detti un esame di Storia Moderna proprio sul triennio giacobino nel Regno di Napoli,1797-1799. Allora prendevo i libri in prestito e dopo l’esame li restituivo e perciò non ho i riferimenti puntuali sull’episodio che racconto: so che il minimo livello di correttezza è citare esattamente le fonti, ma, a meno che qualcuno non voglia consultare, se ancora presenti, i programmi d’esame per non frequentanti di lettere moderne alla Statale di Milano negli anni dal 73 al 76, per stavolta si deve adattare a credermi sulla parola. Nel descrivere l’agitazione di tutto il movimento liberal giacobino e il fervore nella pratica simbolica del piantare l’albero della libertà, l’autore cita il caso di un paese (credo della Puglia) in cui si tenne la cerimonia della piantumazione solenne seguita non dall’aperitivo ma dall’allocuzione in latino del notabile di turno, lo speziale o il medico probabilmente.

Ora vedetevi la scena di un paesino, oggi si direbbe a vocazione rurale, in cui i contadini appoggiati alle loro vanghe si dovettero sorbire l’oscuro pistolotto. Poi chiedetevi il perché del fallimento di quei moti.

Ed è anche la stupidità (è la miseria o la straricchezza che inebetisce maggiormente l’uomo?) dei novelli giacobini, woke, liberal, friendly qui e friendly là (vs. bevitori di Budweiser) che, nonostante tutto, ci fa ben sperare nel futuro, sempreché non ci mettiamo a fargli concorrenza.

Seconda divagazione. Se andate a leggere i libri su cui mi sono preparata agli esami, e che ho scoperto essere ancora in voga vent’anni dopo, la tesi circa quel fallimento è da ricercarsi nell’alleanza Trono-Altare, nel movimento sanfedista, nell’arretratezza di quelle popolazioni, nell’influenza nefasta dei parroci. Questi ultimi erano evidentemente dei veri e propri abusatori (ora si direbbe così) della credulità popolare animati dall’intento di tenere a bada il popolo e le sue legittime richieste. È puramente casuale che i registri ed i diari di quegli stessi parroci siano considerati dagli storici una fonte preziosa di informazioni sulle reali condizioni di vita delle popolazioni.

E benché non possa avanzare obiezioni di merito su quelle ricerche storiche, i cui risultati confluivano nei manuali di storia dei nostri licei, per la mia invincibile ignoranza e perché certamente si trattava di studiosi di vaglia, tuttavia qualche questione di metodo forse può trovare posto. Per la quasi totalità degli storici di chiara reputazione, i movimenti controrivoluzionari, dalla Vandea ai sanfedisti, erano espressione del degrado socio-culturale delle masse ignoranti manipolate essenzialmente dalla Chiesa eccetera, invece i cortei degli anni ‘60/ ‘70 del secolo scorso erano espressione dell’alto grado di coscienza di classe dei manifestanti. Certamente poteva essere così, ma non era un dogma, un prerequisito per così dire dell’analisi storica: masse rinco in Chiesa, che si svegliano tutt’ad un tratto quando devono scioperare, che si fanno suggestionare dal Vangelo e diventano pensosamente critiche davanti all’articolo dell’Unità.

Del resto, un’efferata carneficina può fare otto o dieci vittime, mentre alcuni scontri seguiti alla manifestazione possono farne anche una cinquantina. È proprio vero che il male sta nell’occhio di chi guarda.

 



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