Una interessante intervista ad Alain Finkielkraut, filosofo, giornalista e opinionista politico francese, che parla dell’importanza di preservare l’identità dei popoli europei. L’intervista è stata pubblicata su Letemps.ch e noi ve la proponiamo nella traduzione di Elisa Brighenti.
Nel suo ultimo libro, “In prima persona”, Alain Finkielkraut risponde a coloro che lo definiscono un reazionario. Un’opportunità per intervistare il filosofo, già direttore della rivista “Le Messager européen”, sugli ultimi trent’anni, durante i quali la globalizzazione sfrenata ha infranto le vecchie barriere sovietiche dell’Europa dell’Est.
Alain Finkielkraut si stabilisce sul retro , nel salone delle Edizioni Gallimard, per le quali dirige, tra il 1990 e il 1996, la rivista Le Messager européen. Una sgradevole pioggia autunnale si abbatte sul Quartiere Latino a Parigi. “Metto le mie carte sul tavolo, dico dove sto parlando, ma non dico ‘ad ognuno la sua visione delle cose’”, dichiara subito. Buon per lui! Di fronte al liberalismo così criticato, al crescente multiculturalismo che ha accompagnato la globalizzazione del commercio e l’allargamento dell’Unione europea dopo la caduta del muro di Berlino, che cosa fa questo intellettuale francese essenziale, felice di dire ancora una volta quanto oggi, di fronte agli sconvolgimenti delle nostre società, si senta “molto popolare”?
D: “In prima persona”, il suo ultimo libro, prende le difese di “quei cittadini sottratti al sonno dell’ovvio che non intendono più allinearsi al multiculturalismo maggioritario, che non vogliono cadere nella ridicola trappola di proclamarsi unici detentori dell’universale”. La formula, da quanto lei scrive, si applica alla Francia, ma anche agli europei occidentali, che sono usciti “vincitori” dalla caduta del Muro nel 1989?
R: La Francia sta per diventare una società multiculturale e questa non è la sua vocazione. Potrà rimanere se stessa a condizione che i nuovi arrivati accettino di essere gli eredi della sua cultura e della sua storia. Questo paese non è stato programmato per diventare una sovrapposizione di varie comunità, insieme ad un certo numero di usanze religiose e identitarie, di cui l’uso del velo islamico è uno dei marchi principali. Ciò vale anche per l’Europa? Credo di sì, sì. Mi colpisce quanto gli europei dell’Est, quelli che sono riusciti ad emergere dal totalitarismo comunista dopo la caduta del muro nel novembre 1989, ci ricordino questo fatto ovvio: l’Europa è una civiltà che deve essere preservata. L’applicazione delle norme e procedure che l’Unione europea attua da trent’anni non è sufficiente a soddisfare la sete di identità dei cittadini. Non possiamo ignorare questa realtà semplicemente umana.
D: Quindi questi trent’anni di riunificazione del continente e di allargamento dell’UE sono prima di tutto un fallimento culturale?
R:Il divario tra l’Europa occidentale e l’Europa centrale o orientale è evidente. Ieri era una cortina di ferro politica. Oggi, è un divario culturale. Gli europei dell’est non vogliono diventare cittadini di società multiculturali. Vogliono preservare il patrimonio europeo. Vedo che dietro a tutto questo agiscono tentazioni politiche autoritarie, ma dobbiamo smettere di guardare ciò che sta accadendo laggiù con condiscendenza! Ho sentito un ex consigliere di Vaclav Havel, ex presidente ceco e grande difensore delle libertà, dirmi che non voleva che la sua città, Brno , diventasse “la Marsiglia dell’Europa dell’Est”. In termini di lavoro, occupazione e opportunità economiche, i nostri paesi attirano giovani dall’Est. Ma per un’intera parte della popolazione di questi paesi, la Francia non è più un faro. Siamo diventati un repellente. Questo fa parte della valutazione di questi tre decenni.
D: Non è stato un grosso errore credere troppo nell’economia? In una prosperità che è promessa di democrazia, di libertà e di convergenze culturali?
R: Quello che non mi piace degli economisti è che riconducono tutto alla loro disciplina, alle ricerche di mercato, alle statistiche sull’occupazione o sui consumi. Tuttavia, questa è solo una parte dell’esperienza della gente. Le fortissime reazioni di oggi nell’ex Europa dell’Est ci mostrano che ci troviamo di fronte ad uno scontro di civiltà che non è risolvibile nell’economia! L’immigrazione e il suo corollario, l’emigrazione, non rappresentano, in questi paesi disertati dalla presenza giovanile, soltanto un fattore di crescita. Gli individui non sono viaggiatori senza bagaglio. Non sono intercambiabili, come sostengono gli economisti. Questo è l’errore che è stato commesso. Si è dimenticato che dietro questi regimi comunisti uniformi, bloccati dall’ex URSS, c’erano identità diverse, una ricca storia, una grande cultura, pezzi di una memoria dolorosa. Anche in relazione all’Islam. Ciononostante, gli storici europei abbondano. Conoscevamo questi paesi. Conoscevamo il loro passato. I loro cittadini, inoltre, ci chiedevano solo di viaggiare dopo il cambiamento del 1989, di sperimentare un altro sistema, di essere liberi….. L’Europa occidentale è stata traumatizzata, e rimane traumatizzata, dall’apocalisse nazista. Viene tutto da lì. La nostra parte d’Europa è uscita dalla sua storia con la speranza di non ricadere nella follia. Gli europei non hanno più voluto escludere per la paura di tornare sulla strada del razzismo. Ci siamo accecati per non vedere questa dimensione dell’esistenza che è l’identità. È stata quindi creata una sorta di “homo economicus” europeo standard e formattato , e l’integrazione comunitaria a questo ha contribuito notevolmente. Gli europei dell’est, invece, non sono cresciuti con questa ossessione apocalittica. E possiamo vedere qual è il risultato. Tra le altre cose, un ritorno dell’antisemitismo……. L’antisemitismo rimane molto forte in Polonia, dove non è mai scomparso. La Polonia continua a presentarsi al mondo come nazione vittima e non vuole condividere questo status con nessuno, chiudendo un occhio sull’innegabile ruolo che l’antisemitismo polacco può aver svolto nella Shoah. Resto più vago sull’Ungheria. Se avessi il coraggio, rifarei una rivista come The European Messenger, che abbiamo pubblicato dal 1990 al 1996. Indagherei sul posto. Non ho pregiudizi a carico di Viktor Orban, ma diffido di un George Soros che odia le nazioni e chiede la trasformazione globale dell’Europa in una società multiculturale. Dopo le crisi finanziarie che abbiamo vissuto, trovo difficile concordare con uno speculatore che si presenta come un esempio di virtù umanista. Anche questa è l’eredità dei trent’anni dalla caduta del Muro: gli europei dell’Est hanno imparato a conoscerci, a svelare le nostre menzogne, a decodificare le false verità.
D: Nel suo libro, lei racconta dei suoi (limitati) eccessi degli anni ’70. Aveva 19 anni nel maggio 1968, nel mezzo del tumulto rivoluzionario. L’Europa, all’epoca, ha vissuto sconvolgimenti ancora più forti di quelli che si sono verificati dal 1989, giusto?
R: Il grande errore della generazione del ‘68, che non abbiamo corretto in seguito, è stato quello di voltare le spalle alla storia. Ti ricordi quel barbaro slogan: “Corri, compagno, il vecchio mondo è dietro di te”? Era assurdo. Una sciocchezza. Il 1968 sbagliò profondamente a disconoscere il ruolo degli insegnanti, a dimenticare che tutti gli studenti dell’epoca erano figli di un mondo più grande di loro stessi. Abbiamo commesso lo stesso errore anche nel 1989, considerando che il semplice fatto di poter commerciare liberamente fosse qualcosa di nuovo, di rivoluzionario. Ho capito, dai miei pochi errori, nel maggio del ’68, che il vecchio mondo non è opprimente. Al contrario. Il padrone che opprime è stato confuso con il padrone che insegna. L’insegnamento è diventato un genere chiamato “dominazione”. Stiamo ancora pagando il prezzo di questo disastro. Per questo mi sono separato dalla mia classe generazionale. Il vecchio mondo è fragile, perituro, perché la sua trasmissione alle nuove generazioni diventa sempre più difficile. E’ sempre più difficile sentire la musica dei morti che, però, ci modella. Che ci piaccia o no.
D: La sua musica dei morti è quella dei campi di sterminio nazisti, della sua famiglia ebrea decimata. Come risponde a coloro che la accusano di avere un atteggiamento comunitarista nei confronti dell’Islam e dei musulmani?
R: Odio il “cabotaggio d’identità”. Quindi cerco di non “cabotare”. Semplicemente, nel mio libro, parlo in prima persona come se fossi ebreo. Sono cresciuto in una famiglia di sopravvissuti, in mezzo alle ombre. Non sono stato cresciuto secondo la tradizione. Per la generazione dei miei genitori, l’idea di religione dopo la guerra aveva qualcosa di assurdo. Sapevo di essere ebreo, ma non potevo permettermi di incarnare questa ebraicità. Mi sono identificato con la sfortuna dei miei genitori. Poi mi sono reso conto che la stella non la indossano tutte le generazioni.
D: Questo ci riporta alla situazione attuale in Francia e in Europa. La libera circolazione delle persone. Un mercato unico che deve essere difeso contro la Brexit. L’ascesa del populismo. Lei stesso è stato violentemente attaccato dai “giubbotti gialli”. E’ preoccupato per questa Europa?
R: Non voglio presentarmi come una vittima. Devo solo convivere con questo degrado della vita civile nel mio paese. Ma non dobbiamo confondere tutto. Sulla questione dell’islamismo e del velo, che attraversa l’intero continente, mi sento di condividere il senso comune, quello della gente. Come possiamo in Francia restare indifferenti verso il velo, quando molte donne musulmane lo portano come una bandiera? Non siamo il paese di Molière? Non ridiamo nei nostri teatri di Tartuffe, questo devoto che ci chiede di nascondere “questo seno che non possiamo vedere”? I trent’anni dalla caduta del Muro dimostrano quanto il popolo possa essere in contraddizione con le élite che un tempo difendevano l’ultraliberismo e che oggi accettano il velo islamico. La sensazione di espropriazione dello spazio pubblico non deve essere presa alla leggera, infesta l’Europa nel 2019 ed è la causa di diverse reazioni popolari.
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