di Mattia Spanò
Un piccolo passo per l’umanità, un gigantesco passo per me è stato imparare a capire quando le cose cominciano.
L’abilità in questione può sembrare di poco conto, mentre al contrario rappresenta un confine nettissimo fra il senso, il consenso e il dissenso.
In poche parole, se uno dice ‘sono stanco’, sarebbe meglio sapesse quando precisamente si è sentito stanco. O quando si è innamorato di sua moglie, quando Tizio e Caio sono diventati amici, quando ha capito perché 2+2 fa 4.
È importante capire questo perché le cose hanno contorni, limiti. Siamo al contrario stati addestrati a credere di vivere all’interno di flussi liquidi: flussi di fatti, di dati, di fenomeni, motivo per cui le cose non sono ben distinguibili, le cause si confondono con gli effetti e via dicendo.
Ho scritto che a partire da questo si potrebbe meglio comprendere la differenza fra senso, consenso e dissenso, che è il fondamento della politica e della convivenza civile. Qualsiasi cosa ha un senso, e rispetto a questo senso si definiscono sia il consenso che il dissenso che, per quanto mutevoli, tendono a solidificarsi.
Nessuno passerebbe la vita accanto ad una donna o un uomo nell’incertezza di amarsi. La fine dell’amore può accadere, ma all’inizio l’amore non può esimersi dall’accadere, e quell’inizio ha un luogo e un momento precisi, che sono separati dal resto e facilmente individuabili.
Per conto mio, ho capito che una pandemia assolutamente genuina è cominciata quando ho letto l’hashtag – o slogan, fate vobis – abbraccia un cinese. Erano le prime settimane del pestifero virus di Wuhan (almeno questo veniva detto e questo si credeva).
L’ondata di sdegno mainstream si scatenò quando qualcuno fece pacatamente notare che fosse meglio stare alla larga dai cinesi, i quali venivano talvolta aggrediti e pestati come tamburi per strada.
Di qui, il colpo di genio tutto fiorentino di Dario Nardella, il quale lanciò l’iniziativa abbraccia un cinese.
In quegli anni – sembra di parlare di mezzo secolo fa – nelle metropoli italiane e persino nelle cittadine vorrei ma non posso, era esplosa la moda alimentare del raviolo cinese, un po’ come tutti oggi si sono lanciati sul famigerato pokè, un’insalatona hawaiana che ognuno si compone a piacere.
La moda in fondo nasce per estinguersi: questo tratto fondamentale ne decreta il successo, perché la associamo al cambiamento, concetto tanto inutile, vuoto e neutrale quanto popolare. Una forma di evasione da verità immutabili che ci turbano e in qualche modo impediscono, o relativizzano, il desiderio della felicità qui ed ora. Il problema non è la morte, fatto insormontabile, ma come ci stai di fronte.
Fiorivano raviolerie ovunque come margherite sui prati in primavera. Pare, ma vai a sapere se è vero, che per dimostrare il proprio progressismo antirazzista i milanesi abbiano preso d’assalto il quartiere cinese in Paolo Sarpi per abboffarsi di ravioli e involtini primavera, stringendosi attorno alla comunità cinese. Fra l’altro il secondo hashtag di successo fu appunto Milano non si ferma, lanciato dall’illuminato sindaco Sala.
Sarebbe stato ugualmente interessante se gli italiani avessero preso d’assalto i ristoranti italiani stramazzati dalle chiusure, ma come sappiamo non è accaduto. Da parte loro, se gli esercenti non avessero allontanato i non vaccinati a suon di cartelli, auguri di morte presta e diti medi in evidenza, sarebbe stato ugualmente apprezzato. Ma anche di questo comportamento banale, nessuna traccia.
Quello dunque fu il momento in cui presi contatto che qualcosa di terrificante sarebbe accaduto, e il terzo motivetto in auge, andrà tutto bene, con gente che cantava alle finestre disturbando il vicinato, mi confermò nella convinzione.
Qualcosa di più pestilenziale del virus era entrato nel cervello delle persone: in un gigantesco sabba apotropaico, gli italiani si erano convinti che l’unione fa davvero la forza, innanzitutto morale, ma anche pratica. Che le chiacchiere e i gesti comuni avrebbero salvato il mondo.
Segnali in questo senso erano già evidenti. Dall’ice bucket challenge, individui svantaggiati che si facevano versare in testa una secchiata di acqua e ghiaccio, si è passati a tagliarsi una ciocca di capelli in diretta Instagram per solidarietà con le donne iraniane che manifestavano contro il regime di Tehran.
Durante la pandemia, si sprecarono gli io resto a casa, e gli infermieri danzanti in ospedali vuoti come tombe egizie, in una vampata di conformismo che avrebbe da una parte preparato le persone all’apartheid incipiente, e dall’altra sedimentato la liturgia della nuova religione civile: fare tutti la stessa cosa.
Vaccinarsi, odiare Putin e la Russia, dotarsi di monopattino elettrico e cibarsi di grilli perché la macchina e le bistecche inquinano, domandare all’intelligenza artificiale se è meglio vivere o suicidarsi per salvare il pianeta, e obbedire senza indugio quando l’algoritmo ti suggerisce che farla finita sia una buona cosa.
Questo processo ha un nome: si chiama tribalizzazione. È l’uomo che, sconfitto dalla natura (innanzitutto la propria) si arrocca in preda al terrore nei propri buchi spirituali e tira a campare come peggio non può, sopprimendo a sassate sia le tigri dai denti a sciabola che i propri simili che si avvicinano alla caverna di Platone.
Vale la pena notare che gli stessi individui che invitavano ad abbracciare i cinesi nel nobile impeto antirazzista, tempo un anno si sono dati convegno per latrare contro chi non si vaccinava.
Rimane solo un aspetto da esaminare. Per quale ragione profonda le persone si coagulano intorno all’idiozia più temeraria, e fuggono davanti alla verità, e in generale di fronte alle cose alte e belle della vita?
Schopenhauer avverte che in una conversazione fra più persone, il livello della medesima viene stabilito dal più stupido fra loro. Questo si deve al carattere fintamente paritario del discorso pubblico: il potere stabilisce il significato delle parole, e lascia democraticamente e paternalisticamente i popoli, vale a dire la pletora di nullacontanti che siamo, dividersi.
Il potere risiede nel significato che si dà alle parole, non nell’uso che se ne fa. Che gli stessi no-vax si definiscano tali è la dimostrazione più lampante del fatto che la divisione è stata accettata.
In secondo luogo, adeguarsi alla verità delle cose implica fatica e mortificazione delle proprie ambizioni. Viviamo immersi fin sopra i capelli in una società del desiderio, nonostante nella storia si siano affermate solo e soltanto le società del sacrificio.
Il desiderio, ormai sinonimo perfetto di compulsione incontrollata, non ha affatto bisogno di un fondamento razionale. Può averlo, sia chiaro, ma non è indispensabile.
L’uomo non desidera la giustizia e la pace, ma in qualche forma ne ha bisogno. L’idea che il desiderio di pace e giustizia sia connaturato all’essere umano come costrutto originale, è una scemenza sesquipedale. Il bisogno lo è, il desiderio no, perché il desiderio si costituisce come tentativo di risposta ad una domanda, dunque ha carattere discendente, secondario.
Terza ed ultima considerazione. Gli uomini non sono né buoni, né intelligenti né inclusivi o altre amenità, ma amano sentirsi tali anche e soprattutto in opposizione al buonsenso e alla ragione. Realtà dure come il male, la morte, il fallimento possono essere evase sul piano immaginifico.
L’immaginario collettivo si forma essenzialmente sulla balbuzie degli slogan e sulle iperboli positive: la gente che ti saluta dicendoti “buongiornissimo”, o che si bea di cose che fanno “riderissimo”. Sono marchi di Caino autoinflitti che certificano l’appartenenza al branco cementato dalla convinzione assurda che l’unione sia la panacea di tutti i mali.
La solitudine, il buio, il rischio fanno paura, su questo non c’è dubbio. L’uomo può perdersi dentro la selva oscura, ma la vita e soprattutto Dio sono lì ad aspettarlo, dove tutto sembra perduto.
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