Don Luigi Giussani
Don Luigi Giussani

 

 

di Marco Nardone

 

Sono stato sollecitato anch’io a qualche riflessione dall’intervista a don Pierluigi Banna[1] e poi dalla risposta di Giovanni Maddalena[2], ripresa su questo blog[3]. Il tema è il rapporto tra fede ed esperienza in don Giussani. Dico subito che concordo in buona parte con Maddalena, a partire dal giudizio che la questione è decisiva per il futuro del movimento – anzi, secondo me, per l’intera Chiesa.

 Della prospettiva di don Banna, a mio parere, va senz’altro apprezzato e trattenuto l’accento sulla bontà originaria del cuore umano, che, pur ferito dal peccato, resta capace di verità e quindi di corrispondenza con l’avvenimento cristiano, e l’invito a vivere il Cristianesimo appunto come avvenimento, dandone testimonianza. Don Banna però istituisce una equivalenza tra verità e avvenimento che sembra confinare la capacità di verità al solo aspetto esistenziale, finendo con l’escludere dalla bontà originaria del cuore umano proprio l’aspetto conoscitivo. Per lui, infatti, la dottrina è in fondo qualcosa che non serve alla testimonianza, perché anzi la ostacolerebbe. La dottrina sembra vista, razionalisticamente, come gabbia sul reale, quindi alternativa alla “vita”, piuttosto che, cattolicamente, come finestra sul reale, e quindi sul senso della vita. Non mi spiego altrimenti come mai la “netta riaffermazione della ‘sana dottrina’” sia considerata sostanzialmente come qualcosa di negativo, che “cristallizza” la verità in un “pacchetto di dogmi”, invece di lasciarla libera di fluire qual è, quale “avvenimento, una vita che accende vita intorno a sé”; per cui, di conseguenza, non ci sarebbe “altra via per riconoscerla [la verità] se non coinvolgendosi con questa vita, cioè facendone esperienza. Solo grazie al coinvolgimento di un’umanità viva, ragionevolmente e affettivamente impegnata con l’avvenimento che la sta afferrando, si arriverà a percepire l’eccezionale novità del cristianesimo”.

Ora, io dico, bene la testimonianza di una umanità viva (a patto di spiegare cosa voglia dire: anche Michela Murgia ha testimoniato, ed eroicamente, una umanità viva). Ma che la “sana dottrina”, una coscienza formata dalla dottrina (cattolica), sia di ostacolo a tale testimonianza, questa mi sembra una pura fantasia, smentita da miriadi di santi (fino a Giussani). È certo, invece, che una testimonianza che prescinda dalla “sana dottrina”, o addirittura ne dissenta, NON è una testimonianza cristiana. Anche se risultasse persuasiva per molti. O, comunque, è una testimonianza solo nominalmente cristiana, destinata a perdere presto la connotazione di testimonianza di Cristo per risolversi in auto-testimonianza, o in testimonianza dei valori del mondo, verniciata di cristianesimo.

Sminuendo la formazione dottrinale e insistendo troppo unilateralmente sull’aspetto esistenziale, la prospettiva di don Banna finisce col forzare oggettivamente, proprio nel senso modernista a suo tempo temuto da Montini, l’impostazione di Giussani. Così, nota Maddalena, l’esperienza della Presenza viene, in sostanza, ridotta alla mera esperienza della corrispondenza col proprio “cuore”. Ma questo criterio, se preso senza altre aggiunte, risulta insufficiente a connotare cristianamente un’esperienza. Dopo il peccato originale, infatti, il cuore umano, se non rinnovato dalla Grazia, può trovare “corrispondenza” non solo nel vero, ma anche nel falso, non solo nel bene, ma anche nel male. Proprio per questo Giussani tiene a precisare che occorre una ascesi, una conversione, una verifica, per educare il cuore a riconquistare le proprie esigenze originali e, dunque, a trovare abitualmente “corrispondenza” nel vero e non nel falso, nel bene e non nel male[4].

Significativamente, la necessità di questa ascesi è del tutto assente dal discorso di don Banna. Ciò accade, secondo Maddalena, perché don Banna, nell’intendere la corrispondenza tra avvenimento e cuore, tende ad espellere dalla “natura dell’esperienza” la dottrina e la Tradizione della Chiesa. Sicché sembra, al contrario di quanto dice Giussani, che “la percezione del significato ultimo venga da noi stessi e non sia veicolato dalla tradizione della Chiesa”, cioè da “una grazia che viene fuori di noi”.

In realtà, nella visione di don Banna, la tradizione della Chiesa non è tanto espulsa dall’esperienza, quanto ricondotta ad essa. Nella sua prospettiva, infatti, la tradizione è riconosciuta nel suo valore e accolta nell’atto di fede quando viene ritrovata nella contemporaneità di Cristo, ovvero quale radice dell’avvenimento che mi coinvolge nel presente. Cioè, ancora una volta, in nome della corrispondenza tra avvenimento e cuore, sperimentata ora. Questo però lascia aperta la questione del riconoscimento della “vera” corrispondenza: come so che la corrispondenza che mi entusiasma è Quella conforme alle esigenze originali del cuore umano, e non invece una corrispondenza col male, con ideali incompatibili con la fede cristiana, o comunque ingannevoli?

Don Banna sostiene, richiamando la posizione cattolica, che il cuore umano, anche dopo il peccato originale, non ha perso completamente la capacità di distinguere il vero dal falso e il bene dal male, e ne conclude che il cuore stesso, perciò, può essere preso come “criterio di giudizio per comprendere cosa corrisponde”. La discriminante del riconoscimento sarà allora la misura dell’impatto dell’avvenimento sul cuore umano: l’Avvenimento si darà quando farà “sussultare” il cuore dell’uomo “come nient’altro è capace di fare”. Osserva però Maddalena, richiamandosi pure alla posizione cattolica, che in realtà il cuore, anche nell’uomo redento, “non è in grado di restare nel riconoscimento del bene, del vero e del giusto a lungo senza la grazia”, chiesta nella preghiera e ricevuta nei sacramenti. Il “grado” di soddisfazione percepito dal cuore non può essere allora un criterio sufficiente.

Ora questo è vero, ma per Giussani il rimedio, ci risulta, non sta solo nella “grazia della fede”, e dunque nella reintroduzione della tradizione della Chiesa all’interno dell’esperienza. Ancora prima di questo Giussani, come abbiamo visto, parla di ascesi, o di conversione. Questa ascesi è il presupposto sia del riconoscimento del vero e del bene sia del permanere in esso dopo la grazia della fede. La conversione alla fede richiede sì la grazia, perché, quando si tratta dell’Avvenimento cristiano, “il valore del fatto in cui ci si imbatte trascende la forza di penetrazione dell’umana coscienza e richiede un gesto di Dio per la sua comprensione adeguata”[5]; ma la liberazione è sempre anche il frutto di un impegno ascetico, sia prima che dopo la grazia della fede[6].

Questo impegno è compito del cuore di ogni uomo e riguarda la verità. Com’è possibile, infatti, che un cuore sussulti di fronte alla Verità che si fa evento nell’esperienza se prima, come dice Giussani, non è stato educato ad amare la verità più di sé stesso, ponendosi di fronte ad essa in una posizione di moralità? Vale a dire, se non è impegnato in un lavoro di conversione, cioè di sgombero delle sedimentazioni indotte dalla mentalità del mondo che seppelliscono le esigenze originali del cuore?[7] Questo lavoro, certamente, riceverà dalla grazia della fede la spinta decisiva, ma rimane innanzitutto una questione di posizione dell’uomo, di ogni uomo, nei confronti della verità[8].

Il punto quindi si situa, mi sembra, ancora più a monte di quanto osserva Maddalena, ed investe il problema del rapporto tra fede e verità. In questo senso quello che appare debole nella prospettiva di don Banna è il fatto che, nell’intendere la corrispondenza tra avvenimento e cuore, tende a sminuire il “fattore verità”, in quanto costituito primariamente dalla scala obiettiva delle verità e dei valori che, secondo la visione cattolica, la ragione è in grado ed ha il compito di riconoscere. Tra questi, nello specifico, ci sono i contenuti della Tradizione e della Dottrina della Chiesa, cioè ultimamente quelli della fede nella Rivelazione. Più precisamente, il “fattore verità” viene risolto da don Banna nella corrispondenza stessa, intesa come vissuto personale, lasciando nell’indeterminato come si faccia a distinguere la corrispondenza al cuore quale espressione delle incrostazioni della mentalità del mondo dalla corrispondenza al cuore quale espressione delle evidenze originali.

Se si tralascia questa precisazione, si finisce, dicevamo, col giudicare più o meno cristiana un’esperienza in base all’intensità di soddisfazione di chi la vive. Ma non può essere la “quantità” di soddisfazione l’elemento dirimente. Per caratterizzare l’esperienza cristiana, la soddisfazione stessa deve essere intesa ed educata qualitativamente, cioè quale soddisfazione della verità, e di Cristo in quanto verità (Logos), anche a costo del sacrificio di soddisfazioni che, nella coscienza del testimone, sono diventate di minor conto. Ma per questo occorre, appunto, una ascesi, cioè una coscienza formata dall’amore della verità, illuminata dalla fede e sostenuta dalla Grazia.

Davide Prosperi, nella giornata di inizio anno, dedicata al tema “La fede, compimento della ragione” [9], giustamente sottolinea proprio questo aspetto. Per parlare di esperienza cristiana, dice, bisogna inserire tra il “cuore” e il “fatto” un terzo elemento: la fede che illumina il significato dell’esperienza. E questo elemento, il che è fondamentale, viene dall’alto, non può venire dall’esperienza stessa. Non è la fede che proviene dall’esperienza cristiana, è l’esperienza che diventa cristiana grazie alla fede, in quanto la “grazia della fede” ne illumina il significato[10]. Prosperi non approfondisce, ma è chiaro che la fede, per poter assolvere il compito di illuminare il significato dell’esperienza, va intesa non semplicemente come “fiducia” alimentata dalla vita comunitaria, ma quale fattore di conoscenza della verità, e della Verità di Cristo, professata dalla comunità. Cioè nel suo contenuto dogmatico, con tutto ciò che ne deriva[11]. Senza la grazia della fede così intesa, domandata e accolta dalla libertà, e sostenuta dalla pratica della preghiera e dei sacramenti e da un continuo lavoro di formazione della coscienza, non si dà esperienza cristiana, né è possibile leggere in chiave cristiana gli eventi della storia. Mi sembra una sottolineatura fondamentale, da riprendere e approfondire.

Certo, Giussani era particolarmente attento alla dimensione educativa e quindi al contesto esistenziale in cui si svolge l’annuncio cristiano, ma la dimensione dottrinale non ne era affatto pregiudicata, perché è essa stessa che “fa” e nutre la testimonianza. Sarebbe perciò meglio per il movimento e per tutti se, invece di screditare la dottrina in nome della testimonianza, gli estimatori (con ragione) del “lato esistenziale” di Giussani recuperassero il suo equilibrio “cattolico” e riscoprissero la reciproca implicazione tra l’una e l’altra. Non c’era per Giussani, osserva giustamente Maddalena, “nessun contesto in cui non fosse possibile annunciare il cristianesimo così come la Chiesa Cattolica lo stabilisce, anche nella sua dottrina, che è in realtà frutto proprio dell’esperienza di fede dei due millenni della Chiesa e non una deduzione logica”. La testimonianza cristiana, se è autentica, suppone la dottrina perché, senza il riferimento a qualcosa d’altro da sé, e quindi a qualcosa di diverso dalla semplice intensità di convinzione soggettiva, essa si riduce a mera auto-testimonianza. D’altra parte, è proprio nell’autentica testimonianza (cristiana) che la dottrina, lungi dal defilarsi, si mostra, si comunica, si dimostra convincente in quanto conveniente per la vita.

 

Note:

[1] https://paginasdigital.es/in-giussani-non-ce-contrapposizione-tra-soggetto-e-autorita/

[2]http://laspigola.altervista.org/interpretazioni-alternative-del-concetto-giussaniano-di-esperienza-e-il-futuro-di-un-movimento/

[3] https://www.sabinopaciolla.com/interpretazioni-alternative-del-concetto-giussaniano-di-esperienza-e-il-futuro-di-un-movimento/

[4] Cfr. LUIGI GIUSSANI, Il senso religioso, BUR, Milano, 2023, pp. 13-15.

[5] LUIGI GIUSSANI, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano, 2014, p. 130.

[6] Cfr. LUIGI GIUSSANI, Il senso religioso, cit., pp. 13-15; Il rischio educativo, cit., pp. 130-132.

[7] Cfr. LUIGI GIUSSANI, Il senso religioso, cit., ibid.; pp. 41-43.

[8] Giussani ha sostenuto, in garbata polemica con Dostoevskij, che l’amore per la verità è condizione dell’amore per Cristo, e che questa è la posizione cristiana. Infatti, “io aderisco a Cristo perché è la verità” (Il senso religioso, cit., p. 42).

[9] Testo scaricabile da: https://it.clonline.org/news/attualit%C3%A0/2023/10/09/giornata-inizio-anno-milano

[10] Cfr. LUIGI GIUSSANI, Il rischio educativo, cit., pp. 130-132.

[11] Si veda anche, in proposito, il rinvìo che Prosperi fa al discorso di Benedetto XVI all’Udienza Generale del 31/10/2012, in cui la dimensione comunitaria dell’atto di fede della Chiesa viene chiaramente ricondotta alla confessione dell’”unica fede della Chiesa” che si dà nella recita del “Credo”.

 


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