di Pierluigi Pavone
Il principio della destinazione universale dei beni apparentemente potrebbe legittimare una tesi socialista. Vale a dire, qualcuno potrebbe pensare che i beni debbano restare in uno stato di proprietà collettiva o addirittura “non proprietà”. Invece il principio della destinazione universale dei beni è intrinsecamente e logicamente connesso al diritto naturale alla proprietà privata.
Senza l’approvazione individuale, la destinazione universale sarebbe un assurdo logico. Le cose sono destinate a tutti, affinché ognuno abbia la possibilità, l’opportunità libera di diventare proprietario. La proprietà privata non solo è un diritto naturale inalienabile, ma è pensata logicamente dall’ordine creazionismo di Dio. Dio stesso non può aver creato qualcosa per gli uomini, se non perché gli uomini se ne potessero appropriare. Fare proprio, da parte di ognuno. Accogliere, fruire, agire, mettere in pratica, far fruttificare sono opere intrinsecamente legate al dono. Così come l’agire rispetto al comando. Nessuno dà un comandamento per impedire che qualcuno lo realizzi!
Solo Lutero è stato assurdamente capace di pensare che Cristo ha comandato la legge del Vangelo, ma a causa del peccato ogni uomo è irrimediabilmente impedito a soddisfare quella Giustizia e quello stesso Vangelo, anche dopo la Redenzione della Croce.
Quando si dice che Dio ha donato la terra all’uomo, non solo non significa affatto un “comunismo di beni”. Ma non può significare ciò neppure per logica. Infatti, il concetto stesso di “proprietà comune” è una contraddizione in termini. È una espressione impropria. Già il padre del liberalismo moderno – John Locke – parlava di “essere in comune di tutte le cose”, intendendo che “nessuno ne ha originariamente un dominio privato a esclusione degli altri uomini perché si trovano tutti nello stato di natura”. Così scrive al § 27 del Secondo Trattato sul Governo: il manifesto del capitalismo democratico. E poi aggiunge: “tuttavia, essendo tali frutti dati in uso agli uomini, ci deve essere necessariamente un mezzo per appropriarsene in qualche modo, prima che possano essere di un qualche uso o vantaggio per un singolo uomo. […]. Rimuovendo (una qualsiasi cosa dallo stato in comune) in cui la natura l’ha posta, (il singolo uomo) vi ha connesso – con il suo lavoro – qualcosa che esclude il comune diritto degli altri uomini”. Nel senso che, con il proprio lavoro – misura, criterio e limite della proprietà privata – ha escluso quella cosa dalla disponibilità degli altri (non dalla proprietà), cioè dalla possibilità che altri ne facciamo uso e consumo, appropriandosene. Se nessuno si appropriasse di nulla, allora nessuno potrebbe mai usufruire di niente. Quindi tutti morirebbero semplicemente di fame!
Ed è esattamente quanto Giovanni Paolo II scriveva nella Centesimus Annus, esattamente 30 anni fa: “Mediante il suo lavoro, l’uomo, usando la sua intelligenza, riesce a dominare la terra e farne la sua degna dimora. In tal modo egli fa propria una parte della terra, che appunto si è acquistata con il suo lavoro. È qui l’origine della proprietà individuale”, (cfr. CA § 31 e Compendio di Dottrina Sociale della Chiesa § 176).
Qui è il punto fondamentale. Se qualcuno ha una intenzione di destinare a tutti delle cose, deve per logica, permettere che ognuno se ne appropri individualmente aggiungendo qualcosa di suo, come il lavoro. “La Dottrina sociale richiede che la proprietà dei beni sia equamente accessibile a tutti” (CA, 6).
Non solo allora il lavoro è criterio di legittimazione della proprietà, ma anche attività implicitamente pensata e dovuta, a partire proprio dalla destinazione universale dei beni. Persino portando dei panini per tutti ad una festa, prevedo che ognuno si avvicini a prenderne uno. Se lo impedisco, non solo ho agito inutilmente perché porto qualcosa ma nessuno ne può usufruire; ho agito in modo addirittura illogico, perché ho portato qualcosa con l’intenzione di offrirla a tutti, ma ho impedito a tutti di appropriarsene. L’appropriazione poi può essere di uno o alcuni in gruppo (una società ad esempio) ma si tratterebbe comunque di una proprietà, di una appropriazione.
Persino in Unione Sovietica esisteva la proprietà statale. Era particolarmente ingiusta sul piano morale e inefficace su quello socio-economico. Tuttavia era una forma di proprietà.
Invece i teorici della proprietà comune (da non confondere ovviamente con forme di proprietà comunitaria o societaria o anche solo condominiale, ecc.) prospettano una “non proprietà”, come si può apprendere nelle tesi del Word Socialism Movement (vedi qui).
Il loro motto è: “niente-proprietà”. In questo modo, però, ledono contemporaneamente la giustizia sociale, il più elementare principio giusnaturalista. E la logica. Non sono solo teorici di una utopia. Sono semplicemente propugnatori di una assurdità.
Se affermo che Dio (o fosse anche la natura, come in una prospettiva scriveva lo stesso Locke) ha destinato i pesci del mare a tutta l’umanità devo prevedere per logica – non come possibilità eventualmente aggiunta, ma come azione implicitamente e razionalmente prevista – che gli uomini possano pescare e mangiare alcuni pesci, senza che qualcuno possa dire che quel singolo pesce pescato da una persona sia una appropriazione indebita e un abuso, contro la destinazione universale dei pesci. Se al contrario, in nome dell’essere tutto in comune, non consento a nessuno di pescare e appropriarsi del pesce, porterò tutti a morire di fame.
Il comunismo è arrivato a produrre miseria, carestia e morte per fame, a causa della perversione dei suoi stessi principi socio-economici e della inefficacia strutturale delle proposte stataliste attuate.
Chi sogna di superare la fase comunistica storica, per la scomparsa della stessa idea di proprietà privata, sta proponendo qualcosa che contraddice semplicemente la logica. Ed è una aberrazione totale su tutti i fronti.
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